Il treno è vita, progresso e società. Da sempre. Per sempre.
Nessun mezzo di trasporto ha i connotati sociali, aggregativi, romantici, ecologici, paesaggistici e storici del treno. Il treno unisce persone e popoli, attraversa regioni e continenti, è simbolo di addii come di ricongiungimenti; il treno, serpente d'acciaio carico di umanità, taglia le pianure, si arrampica sui monti, costeggia i mari e i laghi, s'infila lento nel cuore delle città. Potrebbe forse competere l'automobile? Certamente garantisce la mobilità in autonomia e indipendenza, ma è un mezzo asociale, inquinante, pericoloso e, in determinate città e fasce orarie, altamente stressante: traffico, parcheggi... Potrebbe forse competere la nave? Sì, diciamolo, è confortevole e affascinante, cosa non da poco; ma per via della sua peculiarità di viaggiare in acqua, ha un ridottissimo spettro di destinazioni. E l'aereo? Non fosse per la velocità, non avrebbe alcuna attrattiva. È statico, le persone che ci sono al decollo, sono quelle e solo quelle fino all'atterraggio; ed è estraneo al mondo, il suo distacco da terra diviene anche distacco dalla Terra, dalla sua società, dai suoi odori, dalle sue infinite sensazioni... nulla da laggiù penetra la sua fusoliera, un tubo di metallo che all'altare della destinazione, sacrifica il viaggio! Il treno è pregno di vita e di fauna umana, di destini che s'incrociano, si separano e si uniscono. Poco importa se sia un vecchio treno regionale o un siluro ultramoderno e veloce, vi saranno sempre una serie di denominatori comuni che in tutti i treni sono tratti identitari. Le stazioni, per esempio; col loro odore di sassi, rotaie e olio esausto. Le stazioni sono quasi ovunque, mica come i porti e gli aeroporti, solo sulle coste o nelle grandi città. Vi sono stazioni enormi, che ostentano tronfie le loro architetture nel centro di capitali e metropoli, dove tabelloni giganteschi orientano frenetiche folle a districarsi tra decine di binari. Vi sono stazioni site nelle più remote e disperse province, piccoli agglomerati di case con poche anime, arroccate tra monti o isolate nel mezzo di sterminate campagne. La stazione, ovunque sia, non sarà mai asettica e indifferente; darà sempre un tratto peculiare al contesto urbano in cui è ubicata. Nelle grandi città è raduno degli ultimi, senzatetto e disperati d'ogni genere. Nei piccoli centri, invece, la stazione è al contempo punto di fuga da realtà indigene, impermeabili a ogni scambio, e punto di ritorno alle origini, al riparo da troppi scambi. Il treno, coi suoi strambi appuntamenti che ci dà al binario, ha il merito di farci scoprire i minuti non arrotondati alla cinquina: nessuno mai si sarebbe sognato d'interessarsi delle 11.53 o delle 21.36; o ancora delle 13.01 e, perché no, delle 6.28.
Il treno, tra i mezzi di trasporto, è il re della metafora: è il treno che perdi e non torna più; è il treno che hai preso e ti ha cambiato la vita.
Quanta storia è contenuta nei treni. Anni, lustri, decenni; intere generazioni si sono succedute sui treni, intridendo i vagoni di sogni, paure, ambizioni, ansie, gioie e disperazioni. Quei vagoni silenti di convogli dismessi, poggiati sui binari morti fra l'erba alta, coperti dai graffiti, a ornamento di piccole e grandi periferie, pregni di storia scorsa fuori dai finestrini, pregni di storie vissute all'interno dei finestrini.
Perché il treno è vita, progresso e società. Da sempre. Per sempre.
Più che altro di ignoranza,un uomo che picchia un altro al supermercato perché credeva che fosse cinese, l’altro che si difende dicendo che aveva origini filippine. Dove siamo finiti nel 2020? Siamo così indietro.
L’italia è sempre l’unica impreparata, i telegiornali parlano solo e solamente del “coronavirus” però di tutti i bambini che muoiono in Africa quando se ne parla?
Tanto allarmismo per niente, la gente disinformata va a fare rifornimento e si chiude in casa, quando il virus è un’influenza un po’ più forte e sono a rischio solamente gli anziani che soffrono già di altre malattie.
Siamo una popolazione talmente ignorante che abbiamo fatto chiudere i locali e il capitale come va avanti?
La chiusura dei bar, nei primi giorni, alle ore 18 a cosa è servita?
Se il giorno dopo hanno detto che i bar possono fare il solito orario ma i clienti non devono stare al bancone, perché così si infettano, mentre al tavolo si possono sedere tranquillamente, altra cosa ignorante che non serve minimamente a nulla.
In pratica se stai a casa per non prendere il virus sei senza soldi, perché non ti pagano, perciò finisci in mezzo alla strada e lo prendi comunque, mentre se vai a lavorare metti a rischio la tua salute perché se no non porti a casa i soldi.
Perché in Italia ci sono 370 casi e in Spagna due? Dove sono i controlli?
Gente che non è contagiata che va in giro con le mascherine, ancora non hanno,anzi non abbiamo capito nulla. Le persone contagiate devono mettersi la mascherina per non infettare gli altri .
Le procedure che tutti dobbiamo imparare sono le seguenti: lavarsi le mani dopo che si è stati in giro e quindi si è stati a contatto con l’esterno, starnutire nella parte interna del gomito, tossire in essa.
Evitare di recarsi in posti chiusi, non andare al pronto soccorso ma chiamare il numero 112.
Personalmente la mia famiglia non è andata a fare rifornimento ma più che altro è preoccupata per mia nonna perché lei già è debole e quindi ci sono più probabilità che lei si ammali e che muoia , per il resto loro dicono che comunque prima o poi la dovremmo ammalarci tutti e che è una normale influenza solamente un po’ più forte.
Tutti preoccupati per questo virus quando l’influenza uccide sei persone al giorno mentre il corona ne ha uccise cinque in due settimane, tra l’altro anziani con problemi e malattie .
Il fatto che noi abbiamo perso una o due settimane di scuola non è stata una scelta nostra perciò non penso proprio che dovremmo recuperare le ore perse a giugno anche perché ci hanno dato dei compiti mentre eravamo a casa.
Per me stare a casa una settimana non è servito a niente, perché in una settimana non si conclude nulla. Per evitare il contagio è servito ma questo breve tempo è inutile.
Sicuramente non mi rinchiudo nella torre, ma esco e approfitto del tempo libero.
Palestre chiuse, ristoranti, discoteche, locali, abbiamo creato un problema su un altro, avete presente quanta gente è rimasta a casa?
Un consiglio che posso dare è che se si fa un lavoro dove si è a contatto con le altre persone o comunque sei una persona che esce e quindi ti esponi e ti poni a rischio sarebbe meglio non andare a trovare un parente anziano, per esempio tuo nonno o nonna e puoi consigliargli di stare a casa il più possibile.
di Diego Bossi* La presunta apertura dell'Accademia della Crusca all'uso transitivo di alcuni verbi intransitivi ha fatto scoppiare una rivolta sui social. Per molti è crollato un riferimento imprescindibile della lingua italiana, altri hanno gridato allo scandalo, altri ancora si sono dati alle ironie più sfrenate e fantasiose.
Più realisticamente e più correttamente, per onestà intellettuale, dobbiamo ridimensionare il caso e dire che i linguisti, in più contributi verbali e scritti sull'argomento, non hanno sdoganato i vari "scendi il cane", "entra i panni", "siedi il bambino": li hanno tutt'al più bollati come regionalismi, usati nel parlato per esigenze di sinteticità. Non sono ammessi nella lingua comune, non sono ammessi nello scritto, l'ortodossia non verrà sacrificata sull'altare della brevità: la penna rossa delle maestre (giustamente) potrà continuare a colpire indisturbata.
Ma l'onestà intellettuale finisce qui, perché non c'è solo la testa: ci sono la pancia e il cuore! Un intero mondo a parte, lontano dai banchi di scuola e dai libri, dalle regole grammaticali e ortografiche, vede in "scendi il cane", un simbolo sociale forte, con una connotazione di classe, come le scarpe: dicevano i vecchi operai della Pirelli, dove lavoro tutt'ora, che dalle scarpe si capiva l'importanza di un capo. Una generazione di operai dalle scarpe rattoppate, migrati dal meridione, che hanno connotato la società milanese, specialmente nelle grandi aree industriali della provincia. Da operaio del Nord con origini lombarde e venete, sono cresciuto a Sesto San Giovanni fra le famiglie operaie del meridione, a ridosso di una delle più grandi e importanti aree industriali d'Europa. La parlata, l'usanza e la tradizione del Sud mi hanno plasmato totalmente e ancora oggi costituiscono il tessuto sociale di moltissime città del Nord; ed è in questo contesto che l'uso transitivo del verbo intransitivo diventa bandiera ancor prima che errore, perché è il linguaggio che dà applicazione alla filosofia del "parla come mangi" e che si contrappone alla comunicazione dotta e astrusa della borghesia. Molti attivisti sindacali, senza titoli di studio, hanno imparato a scrivere facendo comunicati e volantini, cercando di migliorarsi sempre di più per coinvolgere e convincere, con le loro parole, gli operai nelle fabbriche. La padronanza linguistica è una cosa seria, l'analfabetismo dei nostri nonni è diventato il semianalfabetismo dei nostri genitori e oggi si è trasformato in quel 70% di analfabetismo funzionale: i nostri giovani sanno scrivere e sanno leggere, ma non sanno comprendere un testo o strutturare correttamente una frase. Se non comprendi non reagisci, non comunichi, non organizzi. L'impegno di chi fa politica e sindacato è quello di far evolvere nel linguaggio la sua classe sociale. Ma alcune espressioni errate linguisticamente per la testa, sono un tratto distintivo per la pancia e il cuore. Quindi, cara Crusca, non volermene, ma - per usare un regionalismo romano - s'è fatta 'na certa, fuori è buio e sono tutti a dormire; non mi vede nessuno. Chiudo il pugno e lo alzo al cielo. E scendo il cane. *operaio Pirelli
Ringraziamo il blog https://www.tantipensieri.it e @borghetana per averci autorizzato a pubblicare questo bel testo.
Entro dalla porta laterale, la funzione è già iniziata. Faccio rumore con i tacchi accidenti! Qualcuno si gira curioso per capire chi è che entra in ritardo. Mi siedo sul primo angolo di banco che trovo libero. La chiesa è piena di gente, il defunto era conosciuto nella zona, ed era troppo giovane per morire, solo 57 anni. Un cancro se l’è portato via in pochi mesi. Così è. Mia nonna diceva sempre che muoiono più agnellini che pecore. Aveva ragione.
Non ero molto in confidenza con lui, piuttosto con sua moglie. Non posso dire che siamo amiche, ma è una di quelle persone che seppur semplice conoscente, fa sempre piacere incontrare, scambiarci due parole, anche del più e del meno. Quel feeling naturale insomma che si accetta volentieri. In cuor mio sentivo l’esigenza di venire a dare un ultimo saluto a quest’uomo sfortunato. Pochi fiori, per scelta della famiglia offerte ad un’associazione. Un picchetto di amici con i cappelli da Alpino, ed alla fine della messa uno di loro legge a voce alta e con tono fiero “La preghiera dell’Alpino”. L’ho sentita recitare molte volte ed ogni volta mi commuovo.
Usciamo dalla chiesa e una flotta di persone si avvicina ai familiari per dare le condoglianze. Io odio queste situazioni. Capisco che può far piacere un po’ di conforto, ma credo anche che in quei momenti non si vorrebbe nessuno intorno, soprattutto chi si avvicina giusto per far vedere che c’era. Perché capita anche questo.
Ci avviamo a piedi verso il vicino cimitero e Il sacerdote, rosario alla mano, comincia le preghiere.
- Nel primo Mistero Glorioso si contempla....
- Ave Maria….Santa Maria…
- Ave Maria… Santa Maria…
Cammino a testa bassa rispondendo distratta alle preghiere, ma più che altro penso. Sono molto dispiaciuta per questa tegola che è caduta in testa a questa famiglia. La moglie ha perso un compagno di vita, la figlia femmina il suo eterno fidanzato e il maschio una guida di cui aveva ancora bisogno. E se succedesse a me? Siamo tutti sotto lo stesso cielo.
Qualcuno mi saluta:
- Buonasera.
Mi giro. Noooo! Cesarina! La capo baciapile battinpetto.
- Buonasera Cesarina – rispondo senza darle troppa confidenza, non ho voglia di starla a sentire.
Ma Cesarina ha ingranato la marcia ormai.
- Poveretto! Troppo giovane! Che brutte cose che devono succedere! Povera donna! Poveri ragazzi!
Sono sicura che non ha finito. Infatti…
- Però qualcosa di scuro per rispetto lo poteva mettere la moglie!
- Cesarina, dimmi, quanti anni sono che porti il lutto?
- Eh figlia mia! Tanti! Prima mamma e papà, poi il mio povero marito, poi mia sorella…eh figlia mia!
- Non è tornato nessuno dall’aldilà vero Cesarina ? Se ti fossi vestita di rosso saresti stata meno addolorata?
- E hai ragione pure tu.
Non ha ancora finito, lo sento.
- Ma tu non vieni mai a messa?
- Quasi mai Cesarì.
- E’ peccato lo sai? Che esempio dai alle tue figlie?
- Cesarì, alle mie figlie ho insegnato l’educazione ed il rispetto verso il prossimo, a guadagnarsi il pane con le loro forze, ad andare sempre a testa alta e a non impicciarsi degli affari degli altri. Prega Cesarì che don Vittorino non ti assolve sennò! (Eccheccaz!)
Zitta Cesarina.
Ma sono sicura che qualcuno prenderà di mira, perché le vedo uno sguardo come quello di un cane da punta. Comunque mi lascia in pace e me ne torno ai mie pensieri.
Sento due uomini parlare a voce bassa, due fratelli che hanno una piccola impresa. Pregano, si certo, pregano che gli vada l’appalto per l’ampliamento del cimitero. Effettivamente stanno in tema con le loro preghiere.
Qualcuno parla della cena da preparare, si sta facendo tardi e Don Vittorino cammina lento.
Qualcun altro del tempo o della Pasqua che si avvicina.
Vedo gli amici dei due figli stare attorno a questi ragazzi con grande affetto e sicuramente in modo disinteressato. Saranno un grande sostegno per loro. Mi rincuoro, non è sempre vero che questi giovani di oggi sono insulsi e inetti.
E vedo anche Persio, un pastore tedesco, l’amico inseparabile del defunto. Cammina a coda bassa accanto al carro funebre, annusando qua e là. Deve imparare la strada. Verrà di sicuro a trovare il suo padrone, ne sono certa. Ha due occhioni tristi poverino, al pari dei familiari affranti.
Siamo arrivati al cimitero, mi fermo fuori dal cancello. Ritengo che la sepoltura sia un momento molto privato. Andrò a far visita alla famiglia più avanti, quando tutta questa solidarietà andrà scemando. Tanto la vita è così, i guai sono di chi li ha.
Mi giro per andarmene e sento qualcuno dire:
- Poveretto! Non se lo meritava. Salutava sempre.
“E meno male!” penso “Non oso immaginare, se fosse stata una cattiva persona, che commenti potevano uscire da certe bocche!” Mi cadono le braccia a terra. Non ce la posso fare. Me ne voglio andare a casa alla svelta.
In sostanza, e con grande amarezza, sono qui (e come diceva il grande Totò) “ con questa mia a dirvi” che l’animo umano, PURTROPPO, certe volte è proprio “piccolo piccolo”.
Passo e chiudo.
Di @borghetana per @tantipensieri
Leggi il post originale su
https://www.tantipensieri.it/2018/03/salutava-sempre/
Di Diego Bossi "Normale". Un aggettivo che dice tutto e il contrario di tutto. Fu così che la normalità divenne il lasciapassare dell'orrido, l'edulcorante delle devianze sociali, il vezzeggiativo delle discriminazioni.
È normale dire "puttana" per insultare una donna o "figlio di puttana" per insultare un uomo;
è normale dire "non hai le palle", per indicare vigliaccheria e pavidità;
è normale, per converso, definire il coraggio di un uomo o di una donna con "quello/a c'ha sotto i coglioni", "c'ha le palle";
è normale spronare i bimbi maschi con espressioni tipo "non fare la femminuccia";
è normale definire una fregatura "inculata", "l'hai preso in culo" o, per definire colui che la fregatura la compie, "ti ha inculato", "ti ha messo a pecora";
è normale insultare le persone con termini come "mongoloide", "handicappato", "frocio", "checca", "culatone" "ebreo", "musulmano" o "negro".
Tutto normale. Sono le cose che diciamo e che sentiamo tutti i giorni, le nostre espressioni condite da sorrisi compiaciuti.
La normalità è pericolosa, perché non dà nessuno stimolo al cambiamento, né genera allarmi o stupori, anzi, induce alla rassegnazione: così è sempre stato, così sarà sempre.
Ci sono due aspetti legati al cosiddetto linguaggio comune: uno falso e universalmente ostentato, ossia la pretesa che il linguaggio racconti la società, le sue virtù, i suoi vizi e le sue debolezze, ma è una raffigurazione, appunto, falsa, che etichetta le persone sulla base di pregiudizi infondati e crudeli; l'altro aspetto, quello nascosto ma maledettamente vero e pericoloso, è che in realtà non è il linguaggio a raccontare la società, ma la società a plasmarsi sulle peggiori falsità e infamie del linguaggio. Diventiamo il nostro modo di parlare: razzisti, xenofobi, maschilisti, omofobi.
Tutti uguali, quindi? Certo che no! C'è una linea vera, concreta e oggettiva che divide il mondo in sfruttatori e sfruttati. Gli sfruttatori non subordineranno i loro interessi a logiche razziali, religiose, di genere o di orientamento sessuale; gli sfruttati farebbero bene a fare altrettanto.
Non rassegnamoci alla "normalità" di chi ha interesse a dividerci!
Ecco, questo è un buon punto di partenza per creare un nuovo linguaggio, una nuova società, un nuovo orizzonte.
Ti ho lasciato anni fa, nelle notti milanesi dell'Isola a sorseggiare birra insieme mentre mi raccontavi i tuoi sogni da artista. Ora ti ritrovo qui, a conquistarmi con la tua musica e i tuoi testi. Auguri amico mio, vai alla grande!
Ho aspettato la metro, poi ho aspettato il tram. Ho
aspettato che il caffè uscisse dalla macchinetta. Ho aspettato che si
accendesse il PC e ho aspettato che finisse l’aggiornamento. Ho aspettato che
l’acqua del rubinetto diventasse fredda per poterla bere. E mentre aspettavo
tutte queste cose, ho pensato.
Ho pensato che la nostra vita è fatta di attese, quelle che
finiscono subito e quelle che non finiscono mai. Quelle che ci sembrano durino
una vita intera anche se abbiamo aspettato solo cinque minuti. E quelle che
durano cinque minuti nella nostra testa, ma in realtà noi aspettiamo da una
vita.
E, se ci pensate, non è strano passare la vita ad aspettare?
Ci sembra sempre di poter decidere che direzione prendere, ci sembra di poter
controllare quello che ci circonda, ci sembra di aver plasmato il nostro
passato, presente e futuro. E invece siamo sempre in attesa di qualcosa, senza
nemmeno saperlo.
Questa volta non c’è una conclusione, solo un punto di
domanda.
WAITING...
Un grazie speciale a Chiara (Twitter: @PeccyCandy)
Ho sempre
pensato che le introduzioni siano un segno di debolezza dell’autore, un modo
ausiliario per spiegare e comunicare laddove il testo non arrivi. Non saranno queste
righe, a fare da eccezione, perché anch’esse cercano di sopperire a una
debolezza, quella di un racconto dall’animo autobiografico, sì, ma proprio per
questo, destinato alle persone che hanno condiviso con me quel tratto di vita
in cui mi sono dedicato a una malattia della sfera ginecologica chiamata
endometriosi, unendomi al coro rivendicativo delle donne che ne sono affette.
Un racconto in pigiama, direi; buono solo a girare per casa con disinvoltura,
fra le persone che questa casa la abitano, ma non pronto a uscire in strada: non
si è visti di buon occhio, per strada, in pigiama.
Ecco, forse
è proprio questo il compito di questa introduzione: mettere un vestito al
racconto.
“Il grigio e il verde”, scritto in prima
persona, mi vede protagonista come attivista sindacale, dove nel corso della
mia militanza, mi imbatto per caso nella lotta di alcune donne malate di
endometriosi, impegnate a rivendicare diritti e assistenza da uno Stato sempre
più assente e a denunciare le discriminazioni – specie in ambito lavorativo –
che devono subire.
Dopo mesi
di collaborazione e impegno sociale, vengo contattato dalla malattia stessa
che, fattasi donna, vorrebbe incontrarmi per parlare. Da qui inizia il
racconto, dalla mia decisione – tutt’altro che pacifica – di incontrarmi con
questa “Bestia” divoratrice di donne e sogni.
Questo
racconto non dà risposte né offre soluzioni, ai detentori di certezze ho sempre
preferito i portatori sani di dubbi.
Ne Il grigio e il verde cerco di esplorare
più a fondo possibile il dolore delle donne, evidenziando le tenebre
che si celano dietro al loro sguardo e mettendo in discussione l’intero
mondo del volontariato, sia come pulsione individuale, sia come strutturazione
sociale. Associazioni più impegnate a combattersi e
pubblicizzarsi che a perseguire i propri obbiettivi statutari, associate passive e trasportate dall’inerzia, un’inerzia fuorviante e
truffaldina che offusca l’obbiettività e l’autonomia del giudizio.
Chi è
veramente la Bestia e dov’è? Siamo veramente sicuri di essere diversi da ciò
che combattiamo? E se il nemico altro non fosse che uno specchio? Può un uomo,
capire realmente una donna fino in fondo o la loro diversità è tale da
frapporre una distanza che non ammetteremo mai di avere?
Dietro le
righe di questo breve scritto ci sono mesi della mia vita, persone vere che
porterò nel cuore per sempre e a cui devo solo gratitudine e scuse.
Si dice che
un solo gesto, a volte, valga più di mille parole. Se questo racconto fosse un
gesto, sarebbe una carezza, fatta col rovescio delle dita, sulla guancia rigata
dalla lacrima di chi soffre, di chi si mette in discussione, di coloro che
nella vita hanno combattuto un nemico e hanno scoperto di averlo dentro, di
quelli che escono di casa eroi per rientrare sconfitti dai propri limiti, di
tutte le donne vittime della discriminazione di genere.
Una
piccola, delicata, leggera carezza.
Forse è
niente.
Forse è
tutto.
Che
la lacrima evolva, divenga sorriso,
e
poi, dolcemente, ruga.
L’INCONTRO
C
ammino. Per
un momento pare quasi sia riuscito a sgombrare la mente da tutto e da tutti,
l’unica percezione che ho è la cadenza ritmica dei miei passi.
Cammino.
Lentamente e con garbo i pensieri iniziano a bussare nella mia testa: vogliono
entrare, loro; non li voglio, io.
Entrano.
Mica si fermano davanti alle porte chiuse, i pensieri. Loro diventano liquidi e
passano nelle fessure, tu gli chiudi la porta in faccia e poi li senti
sorridere alle tue spalle, ti giri di scatto e non li vedi. Ma ti sussurrano
all’orecchio.
Cammino.
Ora veloce, per la curiosità; ora lento, per il timore.
Che aspetto
avrà? Faccio bene ad andare? Sarà utile a qualcuno tutto questo?
Ormai
mancano pochi metri al luogo dell’appuntamento, quella panchina nel Parco
Sempione, tra il monumento equestre erto a Napoleone III e l'Arco della pace. I battiti del mio
cuore accelerano e con loro i miei passi. Tra pochi secondi i nostri sguardi si
incroceranno: da una parte io, con tutte le mie imperfezioni, le mie paure, il
mio senso di impotenza; dall’altra lei, l’endometriosi, la malattia delle
donne, quella che pochi conoscono, quella del tessuto dell’utero che durante il
ciclo si forma in altre parti del corpo, quella dei forti dolori e
dell’infertilità, quella che fa perdere il lavoro e i mariti. Quella che
calpesta la vita.
Mi fermo,
sono arrivato. Arresto i miei passi e con loro il respiro.
Lei mi è di
fronte, è giovane e bella, il suo sguardo è profondo, i suoi occhi hanno un
taglio allungato e le iridi emanano un colore a metà tra il grigio e il verde,
a volte pare grigio, come il cielo da cui scroscia la pioggia; a volte verde,
come certi prati che sembrano non finire; altre ancora, una perfetta
commistione tra le due tonalità, e nel tempo in cui cerchi di definire il
colore dei suoi occhi, il suo sguardo ti cattura.
Quando le
chiesi che aspetto avesse e come l’avrei riconosciuta, lei mi disse che sarebbe
stata la mia immaginazione, sulla base del mio vissuto, a darle un aspetto
fisico.
Non so
quale parte o insieme di parti, quale delle decine di storie di donne malate di
endometriosi che ho letto o ascoltato, abbia prodotto l’immagine che ho dato a
questa malattia.
Mi faccio
ingannare dal suo aspetto innocente, dimenticando con chi ho a che fare mi
avvicino a lei, le guardo gli occhi, che è cosa assai diversa da: "la
guardo negli occhi", perché io non voglio vedere lei, ma cosa le alberga
dentro.
Le guardo
intensamente gli occhi, come fossero buchi della serratura di una porta che
protegge un'intimità da sguardi indiscreti. Lo devo ammettere: la mia è una
curiosità malata alla fonte, fatta della stessa materia del guardare un
incidente stradale, una rissa o due che fanno l'amore. Una curiosità che ho
pagato caro.
D'un tratto
i suoi occhi sprigionano l'ignoto, per la prima volta in vita mia capisco quale
aspetto abbia il dolore.
Mi scappa
un grido soffocato e faccio un passo indietro.
Lei mi
guarda con un’intensità tale da farmi sentire posseduto. E sorride. Il suo
sorriso è bello quanto terrificante. Sembrerebbe che una cosa escluda l'altra,
non può esserci oscurità nella bellezza di un sorriso.
No, non è
così, quel sorriso è l'emblema dell'endometriosi: la bellezza di una donna, il
male che si porta dentro.
Il mare
dalle verdi sfumature che lambisce certe grotte e lo stesso che, grigio e
tempestoso, ferocemente ti inghiotte.
Il grigio, il verde.
Un brivido
mi percorre la spina dorsale. Faccio un respiro profondo, cerco di radunare
tutte le parole e i concetti che mi ero prefissato di esprimere. E con voce
alta e tremante, inizio a parlare.
IL DIALOGO
- «E
pensare che due anni fa io la parola endometriosi non l’avevo mai sentita. Ora
mi trovo qui, davanti a te, la Bestia, come le donne che senza pietà colpisci
sono solite chiamarti.
Sai, devo e
voglio essere sincero con te: mi fai schifo! Mi fa schifo quello che fai, il
modo subdolo in cui lo fai, ma soprattutto mi fa schifo la tua intelligenza da
stratega nel fare soffrire le donne; perché tu non colpisci forte, non colpisci
piano: colpisci il giusto! Quell’equilibrio perfetto di intensità e modalità da
rendere tutto maledettamente difficile e lontano dalla soluzione. Hai presente
quelli che perdono il lavoro a mezz’età, troppo giovani per la pensione e
troppo anziani per il ricollocamento? Ecco, tu sei così: abbastanza grave da
rovinare la vita delle tue vittime, ma non abbastanza da farle ottenere un
aiuto dalle istituzioni. Vogliamo poi parlare delle tue prede? Potevi colpire
tutti, indistintamente dal sesso, invece hai scelto le donne, sapendo che sono
discriminate in partenza e che sarebbero state abbandonate a se stesse. Ma tu
non ti sei accontentata di questo, hai voluto rincarare la dose della tua
perfidia acuendo il loro dolore nella fase mestruale, mimetizzandoti così
nell’incapacità delle tue vittime di sopportare i dolori del ciclo, alimentando
la diffidenza e il pregiudizio del mondo maschilista: sei donna e devi
soffrire!
Non so
perché hai scelto me, mi domando cosa mai puoi avere da dirmi e soprattutto
cosa mai posso avere io da ascoltare».
- «Tu sei
presuntuoso, saccente e codardo!»
- «Io?! Ma
se è un anno che…»
- «Un anno
che cosa?! Sentiamo, cos’hai fatto in un anno? Cosa credi di aver cambiato? Sei
ridicolo! Credi che basti scrivere articoletti struggenti e giocare al piccolo
giornalista per combattermi?»
- «Beh, la
vuoi sapere una cosa? Io non sono un codardo! Anche se sono un uomo ti ho
fronteggiato a viso aperto sempre, senza mai tirarmi indietro».
- «Io, io,
io, io e ancora sempre e incessantemente io! Ma lo vuoi capire che qui il
problema non sei tu?! Siete tutti bravi a misurare il vostro ego sulla barra
millimetrata dell’impegno sociale».
- «Non ho
mai chiesto riconoscimenti a nessuno, e comunque lo hai detto tu: il problema
non sono io. Il problema sei tu».
- «È
questo, caro Diego, il più grande errore che si possa fare, il problema non
sono io.
Sai, c’è
una massima famosa che fa più o meno così: “Il problema non è il problema, ma
cosa fai tu di fronte al problema”. Ecco, cosa fai tu? Cosa fa il medico? Cosa
fa la paziente? Cosa fa la gente?
È troppo
facile prendersela con me, io sono una malattia, sono fatta di cellule e
molecole, non ho consapevolezza di me stessa come voi umani, a me non interessa
esistere perché io esisterò sempre e comunque, cambierò nome, cambierò effetti,
ma continuerò ad esistere. È il postulato di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla
si distrugge, tutto si trasforma”, io sono il fruscìo degli alberi mossi dal
vento, la nuvola che oscura e il sole che illumina; sono quello che vedi ma non
guardi, che senti ma non ascolti. Ma voi volete dare un volto e un nome a tutto
quello che non conoscete o che non vedete, perché non riuscite a relazionarvi
che con voi stessi, vi fa sentire più sicuri, lo fate con le religioni, con gli
uragani come con le malattie. Personificate me per dare un alibi alla vostra
inconcludenza, date sembianze umane a ciò che umano non è, perché chi umano è,
l’umano non sa più fare. Ma quando capirete che su di me si riflette il peggio
di voi?!»
- «E tu
quando capirai che colpire l’utero significa colpire il fulcro dell’intera
razza umana?! Com’è possibile accettare che una donna debba subire simili
sofferenze solo perché portatrice di un organo che è il sacro simbolo della
vita? Di più: com’è possibile accettare che di questo fardello, la donna, debba
accollarsene interamente il peso? Sei di una viltà vergognosa!»
- «Non ci
provare neanche a giocare al paladino dei diritti umani con me, perché non
funziona! Se io sono vile voi uomini cosa siete? Voi che vedete le donne come
oggetto al vostro servizio: sfogo sessuale, faccendiera di casa,
contenitore dei vostri figli, belle
finché utili, utili finché belle. Guardati dentro, solo lì capirai cos’è la
vergogna.
Trovo
perfino incomprensibile e fastidioso che tu ti sia interessato di quello che
faccio io alle donne».
- « Non c’è
nulla da comprendere, l’elemento che più mi indusse a collaborare alla campagna
informativa su di te e a fare mie le rivendicazioni delle donne che colpisci,
soprattutto nell’ambito sindacale, in cui sono impegnato, fu sicuramente la
lettura di decine di testimonianze postate in rete dalle tue vittime. Fu allora
che decisi di impegnarmi in questa causa, scrivendo volantini e articoli,
pubblicando interviste, allestendo banchetti informativi. Allora non compresi
appieno la complessità di quel mondo. E comprendere pienamente un qualsiasi
problema è la base di partenza per affrontarlo. Lo devo ammettere: con te,
tutt’ora, ho delle serie difficoltà».
- «Siete in
molti ad averne. Credete di comprendermi sulla base di quello che dicono o
scrivono le donne che colpisco, ma nessuno è capace di andare oltre, di
viaggiare mentalmente nei remoti luoghi del dolore e guardarmi negli occhi là,
dove le donne non diranno e non scriveranno. Vedete in me il dolore fisico, i
più sensibili captano il dolore della psiche sintetizzandolo semplicisticamente
con sentimenti come tristezza, autocommiserazione, sensi di colpa e
inadeguatezza. Ma nessuno, nessuno, riesce non dico a raggiungere, ma nemmeno a
intravedere il dolore dell’essere, quella macchia indelebile sull’essenza della
vita, che ne devia la rotta e ne sposta gli equilibri. Ricorda: non esiste male
più grande di quello che può celarsi dietro al sorriso di una donna.
Mi cercate
con le risonanze e le ecografie, ma non sapete più cercare col cuore. Il
radiologo non vedrà l’amore incompiuto di una donna che non sarà riuscita a
fare padre il suo compagno e nonni i suoi genitori, non vedrà la frustrazione
che si prova non riuscendo ad essere amante, non vedrà il dolore di una madre
che non riesce a correre su un prato con suo figlio, non vedrà mai la
differenza tra un sorriso di felicità e un sorriso sforzato che ti senti in
dovere di offrire a chi ti ama.
Poi c’è la
cosa più invisibile di tutte, caro Diego. Quella che spesso non vedono neanche
le mie vittime, ma questa, in fondo, è una cosa che colpisce tutti: uomini e
donne, malati e non».
- «E quale
sarebbe ‘sta cosa?»
- «Il
debito».
- «Il
debito?!»
- «Sì, il
debito. Il debito che la vita contrae nei vostri confronti e di cui pretendete
perennemente il risarcimento.
Ci sono cose
che ognuno di voi percepisce come irrinunciabili e non accetta di esserne
privato. Io tolgo molte di queste cose alle mie vittime, il dolore che infliggo
è invalidante per il corpo e per l’anima, spesso privo le donne della
maternità, di una vita lavorativa regolare con cui creare la propria
indipendenza, di un’attiva partecipazione nelle relazioni sociali.
Succede
così che il maltolto diventa sogno, il sogno ossessione, l’ossessione incubo.
Si finisce col passare la vita a inseguire quello che non si ha avuto.
Dimenticando quello che si ha».
- «Hai
detto una grande e scomoda verità. Per te che non sei umana è facile fare
analisi e sparare sentenze, cosa può saperne una malattia delle ambizioni, della
gioia o della tristezza? Cosa ne sai tu dell'amore e della disperazione, della
famiglia e della società, dell'abbandono e dell'emarginazione. Avanti, dimmi
cosa sai della vita, tu che la vita mortifichi».
- «Forse
niente, forse tutto. Ma la mia visuale è nitida perché il mio sguardo è
disinteressato. Osservo il mondo delle donne che possiedo, osservo il dolore
che le infliggo, il vuoto che le creo intorno; osservo la vostra indifferenza,
la pavidità umana. Combattete guerre stupide: il politico che deve vincere, il
partito che deve avere la maggioranza, la manifestazione più numerosa; combattete
a chi è più bravo a combattermi, a chi arriva prima a colpirmi, al medico
migliore, alla storia più dolorosa, alle scelte più giuste, all'associazione
più valida.
Combattete
tra voi, mentre io sto alla finestra a guardare».
- «Molte
volte mi sono ritrovato a fare le tue stesse osservazioni senza mai individuare
una soluzione percorribile. Si inizia sempre nel migliore dei modi, con le
migliori intenzioni, poi si innescano meccanismi inevitabili: competizione,
brama di fama e di riscatto sociale finiscono col prevalere. È inutile, siamo
così, noi. Quando ci vedi fare del bene devi chiederti per quale motivo lo
facciamo. E spesso scoprirai che vogliamo coccolare le nostre coscienze e
lustrare il nostro ego. Si fa volontariato anche per sopperire a vuoti
sentimentali e sociali, per avere considerazioni e riconoscimenti che non si
trovano nella sfera privata o lavorativa.
Il calcio
da noi non è solo lo sport nazionale, ma una filosofia di vita. Siamo sempre
buttati in un campo, con maglie differenti a cercare di mandare un pallone in
una rete. Ci sono i calciatori e gli allenatori, ossia coloro che in prima
persona lottano per l’obbiettivo; poi c’è il pubblico sugli spalti, migliaia di
individui che passivamente tifano per una squadra o per l’altra standosene
comodamente seduti a guardare, a gioire, a criticare. Ecco, ogni giorno, in
ogni luogo, per ogni causa, va in scena questa partita. E nessuno si domanda
chi o cosa abbia chiuso tutti nello stadio per sbirciare divertito».
- «E
quindi? Come se ne esce? Qual è la soluzione?»
- «Le due
squadre in campo smettono di affrontarsi e si alleano perché capiscono che
l’avversario in realtà è un altro, il pubblico abbandona gli spalti e scende in
campo, tutti insieme escono dallo stadio affiatati e determinati e vanno
prendersi ciò che gli spetta. Ti pare verosimile?»
-
«Sinceramente, no».
- «Ecco,
appunto, semplicemente, la soluzione, non esiste».
- «Eppure…»
- «Eppure
cosa?»
- «Eppure
la marcia mondiale, le associazioni… non so, sembrerebbe che le potenzialità le
avete tutte»
- «Dobbiamo
ridare alle parole il loro significato. Il termine associazione indica una
moltitudine di persone che si associano per perseguire un obbiettivo.
Un’associazione è tale quando le persone associate partecipano ai processi
decisionali, come alle attività, altrimenti, l’associazione non è più un mezzo
ma il fine, diventa un gruppo di potere autoreferenziale che si nutre di se
stesso, dove il lavoro e lo sforzo di tanti – spesso inconsapevoli –, si
traduce nell’interesse di pochi.
La marcia
mondiale è senza dubbio un evento importante, ma non dobbiamo dimenticarci che
dev’essere un punto di partenza e non di arrivo».
- «Parlami
di te».
- «Cosa
c’entro io?»
- «Più di
quello che credi. Prima mi hai chiesto perché avessi scelto te, e tu? Perché
hai scelto me, invece? Cosa ci azzecca un uomo? Intendiamoci: di uomini ne vedo
tanti, ma in qualità di mariti, fratelli
e padri di donne malate. Tu invece no, nulla sapevi e nulla ti legava a me.
Eppure ci ritroviamo qui, ora, io e te. Perché?»
- «L’unica,
amara e difficile verità è che non lo so. Nella vita ci passano davanti ogni
giorno tantissime cause a cui dedicarci, ma solo alcune ne scegliamo.
Proprio non
lo so perché ho scelto te.
Ho creduto
di aiutare delle donne che nel loro dolore lottavano per i loro diritti, ho
pensato che scrivere di loro potesse essere un segno di vicinanza e di
comprensione.»
- «Ma?»
- «Ma
vicinanza e comprensione sono fatte di fatti, non di belle parole. Ci sono
persone stupende che lottano al fianco delle tue vittime ogni giorno, io altro
non sono che un paroliere vuoto che nasconde i suoi limiti dietro ai suoi
testi, e più le parole son belle, meglio mascherano il vuoto della sostanza. Contenta
ora?»
- «Sì. Non
sarò ipocrita. Era quello che volevo sentirti dire, era lì che volevo arrivassi.
Hai scritto
di noi senza comprendere chi sei tu, hai narrato la parte scenica
dell’endometriosi, quella sul palco, davanti alla platea, dove tu eri
spettatore attento. Ma non sei andato a sbirciare dietro il sipario, avresti
visto cose che fanno male, caro Diego. E forse saresti riuscito a guardare
negli occhi l’unico vero peccato originale esistente, che non è quello
propinatoci dalla chiesa maschilista, di mangiare un frutto, dove la donna è
tentata e tentatrice, ma quello di conferire alla donna l’esclusiva
dell’origine: la formazione della vita nel suo grembo, quindi la continuità
della razza umana. A lei l’enormità della gioia e del dolore, dei meriti e
delle colpe, delle decisioni e delle responsabilità; del grigio e del verde. Si, proprio così, il colore dei miei occhi che tanto guardavi prima significa
questo: la complementarità degli opposti, nulla esisterebbe se non esistesse il
suo contrario.
Eccolo il vero
peccato originale, infima bestia che crea nei remoti inconsci di entrambi i
sessi sensazioni ataviche e ancestrali, di cui non vi rendete nemmeno conto.
L’uomo sarà per sempre distaccato dal processo di formazione della vita, e
questo distacco per lui sarà una colpa irredimibile; la donna non accetterà mai
questo distacco dell’uomo nella fase più solenne della sua esistenza.
Il peccato
originale. Che nessun battesimo potrà mai cancellare».
IL LASCITO
Assorto nei
pensieri e provato dalle intense parole scambiate con la bestia, guardo tutto
senza guardare niente, fisso il vuoto, perché di vuoto sono fatto e nel vuoto
mi riconosco.
Mi volto
verso di lei, ma lei non c’è più. Svanita. Nel nulla.
Guardo,
guardo ovunque, guardo fra gli alberi e i cespugli, lungo i sentieri e i bordi
dei laghetti. Stupidamente mi alzo e giro intorno a me stesso guardando in
basso, come se potesse essere sotto di me.
Una
sensazione astratta di vuoto e di smarrimento mi invade, cammino fra gli alberi
del parco dove fino a pochi minuti prima stavo parlando con lei, mi riscopro
triste, di una tristezza diversa, figlia del sapere e madre di nuove
prospettive. Il guscio della verità, lentamente, si crepa, fino a schiudersi e
a rivelare l’ovvio: non esiste nessuna malattia che si è fatta donna per
incontrarmi. Sono io ad averla immaginata, come in un sogno a occhi aperti
costruito ad hoc dalla mia coscienza. E ora mi ritrovo qui, al capolinea di
questo percorso introspettivo, la mia sostanza è più povera, ma la corazza che
la ricopre più spessa. Perché il dolore diviene accettazione e poi saggezza:
lacrima, sorriso, ruga.
In questa
mattina d’autunno, osservo la brezza che fa oscillare gli alberi e sposta
velocemente le nubi, creando un gioco d’alternanza tra l’ombra e i raggi del
sole.
D’un tratto,
quasi a liberarmi dalla sua assenza, riecheggiano nella mia mente le sue
parole: “…io sono il fruscìo degli alberi
mossi dal vento, la nuvola che oscura e il sole che illumina; sono quello che
vedi ma non guardi, che senti ma non ascolti”.
Mi siedo
nuovamente sulla panchina, rilasso ogni muscolo e stendo la schiena, cercando
una pace che non merito.
Allargo le
braccia lungo lo schienale e lascio cadere a peso morto la testa all’indietro,
fissando il cielo.
Il senso di
vuoto e di solitudine, la speranza, il bisogno di amore e di amare, la dura
accettazione dei propri limiti e la voglia intensa di superarli. Sembrano
esserci tutte, le sensazioni di una vita vissuta.
Chiudo gli
occhi, vedo i suoi. Il grigio. Il verde.
Scritto nelle province di Milano, Roma, Monza Brianza, Rimini e Lecco.