Parole da Twitterland

venerdì 28 febbraio 2020

I giorni del Corona Virus visti da una studentessa di 14 anni

Tanto allarmismo per niente


Wow!

Scoppio incredibile!

Più che altro di ignoranza,un uomo che picchia un altro al supermercato perché credeva che fosse cinese, l’altro che si difende dicendo che aveva origini filippine. Dove siamo finiti nel 2020? Siamo così indietro.

L’italia è sempre l’unica impreparata, i telegiornali parlano solo e solamente del “coronavirus” però di tutti i bambini che muoiono in Africa quando se ne parla?

Tanto allarmismo per niente, la gente disinformata va a fare rifornimento e si chiude in casa, quando il virus è un’influenza un po’ più forte e sono a rischio solamente gli anziani che soffrono già di altre malattie.

Siamo una popolazione talmente ignorante che abbiamo fatto chiudere i locali e il capitale come va avanti?

La chiusura dei bar, nei primi giorni, alle ore 18 a cosa è servita?

Se il giorno dopo hanno detto che i bar possono fare il solito orario ma i clienti non devono stare al bancone, perché così si infettano, mentre al tavolo si possono sedere tranquillamente, altra cosa ignorante che non serve minimamente a nulla.

In pratica se stai a casa per non prendere il virus sei senza soldi, perché non ti pagano, perciò finisci in mezzo alla strada e lo prendi comunque, mentre se vai a lavorare metti a rischio la tua salute perché se no non porti a casa i soldi.

Perché in Italia ci sono 370 casi e in Spagna due? Dove sono i controlli?

Gente che non è contagiata che va in giro con le mascherine, ancora non hanno,anzi non abbiamo capito nulla. Le persone contagiate devono mettersi la mascherina per non infettare gli altri .

Le procedure che tutti dobbiamo imparare sono le seguenti: lavarsi le mani dopo che si è stati in giro e quindi si è stati a contatto con l’esterno, starnutire nella parte interna del gomito, tossire in essa.

Evitare di recarsi in posti chiusi, non andare al pronto soccorso ma chiamare il numero 112.

Personalmente la mia famiglia non è andata a fare rifornimento ma più che altro è preoccupata per mia nonna perché lei già è debole e quindi ci sono più probabilità che lei si ammali e che muoia , per il resto loro dicono che comunque prima o poi la dovremmo ammalarci tutti e che è una normale influenza solamente un po’ più forte.

Tutti preoccupati per questo virus quando l’influenza uccide sei persone al giorno mentre il corona ne ha uccise cinque in due settimane, tra l’altro anziani con problemi e malattie .

Il fatto che noi abbiamo perso una o due settimane di scuola non è stata una scelta nostra perciò non penso proprio che dovremmo recuperare le ore perse a giugno anche perché ci hanno dato dei compiti mentre eravamo a casa.

Per me stare a casa una settimana non è servito a niente, perché in una settimana non si conclude nulla. Per evitare il contagio è servito ma questo breve tempo è inutile.

Sicuramente non mi rinchiudo nella torre, ma esco e approfitto del tempo libero.

Palestre chiuse, ristoranti, discoteche, locali, abbiamo creato un problema su un altro, avete presente quanta gente è rimasta a casa?

Un consiglio che posso dare è che se si fa un lavoro dove si è a contatto con le altre persone o comunque sei una persona che esce e quindi ti esponi e ti poni a rischio sarebbe meglio non andare a trovare un parente anziano, per esempio tuo nonno o nonna e puoi consigliargli di stare a casa il più possibile.

Kokolla2.0

martedì 29 gennaio 2019

Cara Crusca, noi il cane lo scendiamo da sempre

di Diego Bossi*
La presunta apertura dell'Accademia della Crusca all'uso transitivo di alcuni verbi intransitivi ha fatto scoppiare una rivolta sui social. Per molti è crollato un riferimento imprescindibile della lingua italiana, altri hanno gridato allo scandalo, altri ancora si sono dati alle ironie più sfrenate e fantasiose. 
Più realisticamente e più correttamente, per onestà intellettuale, dobbiamo ridimensionare il caso e dire che i linguisti, in più contributi verbali e scritti sull'argomento, non hanno sdoganato i vari "scendi il cane", "entra i panni", "siedi il bambino": li hanno tutt'al più bollati come regionalismi, usati nel parlato per esigenze di sinteticità. Non sono ammessi nella lingua comune, non sono ammessi nello scritto, l'ortodossia non verrà sacrificata sull'altare della brevità: la penna rossa delle maestre (giustamente) potrà continuare a colpire indisturbata.

Ma l'onestà intellettuale finisce qui, perché non c'è solo la testa: ci sono la pancia e il cuore! Un intero mondo a parte, lontano dai banchi di scuola e dai libri, dalle regole grammaticali e ortografiche, vede in "scendi il cane", un simbolo sociale forte, con una connotazione di classe, come le scarpe: dicevano i vecchi operai della Pirelli, dove lavoro tutt'ora, che dalle scarpe si capiva l'importanza di un capo. Una generazione di operai dalle scarpe rattoppate, migrati dal meridione, che hanno connotato la società milanese, specialmente nelle grandi aree industriali della provincia. 
Da operaio del Nord con origini lombarde e venete, sono cresciuto a Sesto San Giovanni fra le famiglie operaie del meridione, a ridosso di una delle più grandi e importanti aree industriali d'Europa. La parlata, l'usanza e la tradizione del Sud mi hanno plasmato totalmente e ancora oggi costituiscono il tessuto sociale di moltissime città del Nord; ed è in questo contesto che l'uso transitivo del verbo intransitivo diventa bandiera ancor prima che errore, perché è il linguaggio che dà applicazione alla filosofia del "parla come mangi" e che si contrappone alla comunicazione dotta e astrusa della borghesia. 
Molti attivisti sindacali, senza titoli di studio, hanno imparato a scrivere facendo comunicati e volantini, cercando di migliorarsi sempre di più per coinvolgere e convincere, con le loro parole, gli operai nelle fabbriche.
La padronanza linguistica è una cosa seria, l'analfabetismo dei nostri nonni è diventato il semianalfabetismo dei nostri genitori e oggi si è trasformato in quel 70% di analfabetismo funzionale: i nostri giovani sanno scrivere e sanno leggere, ma non sanno comprendere un testo o strutturare correttamente una frase. Se non comprendi non reagisci, non comunichi, non organizzi. L'impegno di chi fa politica e sindacato è quello di far evolvere nel linguaggio la sua classe sociale. Ma alcune espressioni errate linguisticamente per la testa, sono un tratto distintivo per la pancia e il cuore. Quindi, cara Crusca, non volermene, ma - per usare un regionalismo romano - s'è fatta 'na certa, fuori è buio e sono tutti a dormire; non mi vede nessuno. Chiudo il pugno e lo alzo al cielo. E scendo il cane.

*operaio Pirelli


martedì 20 marzo 2018

Salutava sempre

Ringraziamo il blog https://www.tantipensieri.it e @borghetana per averci autorizzato a pubblicare questo bel testo.
  
  Entro dalla porta laterale, la funzione è già iniziata. Faccio rumore con i tacchi accidenti! Qualcuno si gira curioso per capire chi è che entra in ritardo. Mi siedo sul primo angolo di banco che trovo libero.  La chiesa è piena di gente, il defunto era conosciuto nella zona, ed era troppo giovane per morire, solo 57 anni. Un cancro se l’è portato via in pochi mesi.  Così è. Mia nonna diceva sempre che muoiono più agnellini che pecore. Aveva ragione. 
  Non ero molto in  confidenza con lui, piuttosto con sua moglie. Non posso dire che siamo amiche, ma è una di quelle persone che seppur semplice conoscente, fa sempre piacere incontrare, scambiarci due parole, anche del più e del meno. Quel feeling naturale insomma che si accetta volentieri. In cuor mio sentivo l’esigenza di venire a dare un ultimo saluto a quest’uomo sfortunato. Pochi fiori, per scelta della famiglia offerte ad un’associazione. Un picchetto di amici con i cappelli  da Alpino, ed alla fine della messa uno di loro legge a voce alta e con tono fiero  “La preghiera dell’Alpino”. L’ho sentita recitare molte volte ed ogni volta mi commuovo.
  
  Usciamo dalla chiesa e una flotta di persone si avvicina ai familiari per dare le condoglianze. Io odio queste situazioni. Capisco che può far piacere un po’ di conforto, ma credo anche che in quei momenti non si vorrebbe nessuno intorno, soprattutto chi si avvicina giusto per far vedere che c’era. Perché capita anche questo.
  Ci avviamo a piedi  verso il vicino cimitero e Il sacerdote, rosario alla mano, comincia le preghiere.
  -          Nel primo Mistero Glorioso si contempla....
  -          Ave Maria….Santa Maria…
  -          Ave Maria… Santa Maria…
  Cammino a testa bassa rispondendo distratta alle preghiere, ma più che altro penso.  Sono molto dispiaciuta per questa tegola che è caduta in testa a questa famiglia. La moglie ha perso un compagno di vita, la figlia femmina il suo eterno fidanzato e il maschio una guida di cui aveva ancora bisogno. E se succedesse a me? Siamo tutti sotto lo stesso cielo.
  
  Qualcuno mi saluta:
  -          Buonasera.
  Mi giro. Noooo! Cesarina! La capo baciapile battinpetto.
  -          Buonasera Cesarina – rispondo senza darle troppa confidenza, non ho voglia di starla a sentire.
  Ma Cesarina ha ingranato la marcia ormai.
  -          Poveretto! Troppo giovane! Che brutte cose che devono succedere! Povera donna! Poveri ragazzi!
  Sono sicura che non ha finito. Infatti…
  -          Però qualcosa di scuro per rispetto lo poteva mettere la moglie!
  -          Cesarina, dimmi, quanti anni sono che porti il lutto?
  -          Eh figlia mia! Tanti! Prima mamma e papà, poi il mio  povero marito, poi mia sorella…eh figlia mia!
  -          Non è tornato nessuno dall’aldilà vero Cesarina ? Se ti fossi vestita di rosso saresti stata meno addolorata?
  -          E hai ragione pure tu.
  Non ha ancora finito, lo sento.
  -          Ma tu non vieni mai a messa?
  -          Quasi mai Cesarì.
  -          E’ peccato lo sai? Che esempio dai alle tue figlie?
  -          Cesarì, alle mie figlie ho insegnato l’educazione ed il rispetto verso il prossimo, a guadagnarsi il pane con le loro forze, ad andare sempre a testa alta e a non impicciarsi degli affari degli altri. Prega Cesarì che don Vittorino non ti assolve sennò! (Eccheccaz!)
  Zitta Cesarina.
  Ma sono sicura che qualcuno prenderà di mira, perché le vedo uno sguardo come quello di un cane da punta. Comunque mi lascia in pace e me ne torno ai mie pensieri.
  Sento due uomini parlare a voce bassa, due fratelli che hanno una piccola impresa. Pregano, si certo, pregano che gli vada l’appalto per l’ampliamento del cimitero. Effettivamente  stanno in tema con le loro preghiere.
  Qualcuno parla della cena da preparare, si sta facendo tardi e Don Vittorino cammina lento.
  Qualcun altro del tempo o della Pasqua che si avvicina.
  Vedo gli amici dei due figli stare attorno a questi ragazzi con grande affetto e sicuramente in modo disinteressato. Saranno un grande sostegno per loro.  Mi rincuoro, non è sempre vero che questi giovani di oggi sono insulsi e inetti.
  E vedo anche Persio, un pastore tedesco, l’amico inseparabile del defunto. Cammina a coda bassa accanto al carro funebre, annusando qua e là. Deve imparare la strada. Verrà di sicuro a trovare il suo padrone, ne sono certa. Ha due occhioni tristi poverino, al pari dei familiari affranti.
  
  Siamo arrivati al cimitero, mi fermo fuori dal cancello. Ritengo che la sepoltura sia un momento molto privato. Andrò a far visita  alla famiglia più avanti, quando tutta questa solidarietà andrà scemando. Tanto la vita è così, i guai sono di chi li ha.
  Mi giro per andarmene e sento qualcuno dire:
  -          Poveretto! Non se lo meritava. Salutava sempre.
  “E meno male!” penso “Non oso immaginare, se fosse stata una cattiva persona, che commenti potevano uscire da certe bocche!” Mi cadono le braccia a terra. Non ce la posso fare. Me ne voglio andare a casa alla svelta.
  
  In sostanza, e con grande amarezza,  sono qui  (e come diceva il grande Totò)  “ con questa mia a dirvi”  che l’animo umano, PURTROPPO, certe volte è proprio “piccolo piccolo”.
  
  Passo e chiudo.

Di @borghetana per @tantipensieri

Leggi il post originale su
https://www.tantipensieri.it/2018/03/salutava-sempre/

lunedì 13 novembre 2017

Non rassegnamoci alla "normalità" del linguaggio borghese

Di Diego Bossi

"Normale". Un aggettivo che dice tutto e il contrario di tutto. 
Fu così che la normalità divenne il lasciapassare dell'orrido, l'edulcorante delle devianze sociali, il vezzeggiativo delle discriminazioni.

È normale dire "puttana" per insultare una donna o "figlio di puttana" per insultare un uomo;

è normale dire "non hai le palle", per indicare vigliaccheria e pavidità;

è normale, per converso, definire il coraggio di un uomo o di una donna con "quello/a c'ha sotto i coglioni", "c'ha le palle";

è normale spronare i bimbi maschi con espressioni tipo "non fare la femminuccia";

è normale definire una fregatura "inculata", "l'hai preso in culo" o, per definire colui che la fregatura la compie, "ti ha inculato", "ti ha messo a pecora";

è normale insultare le persone con termini come "mongoloide", "handicappato", "frocio", "checca", "culatone" "ebreo", "musulmano" o "negro".

Tutto normale. Sono le cose che diciamo e che sentiamo tutti i giorni, le nostre espressioni condite da sorrisi compiaciuti.
La normalità è pericolosa, perché non dà nessuno stimolo al cambiamento, né genera allarmi o stupori, anzi, induce alla rassegnazione: così è sempre stato, così sarà sempre.
Ci sono due aspetti legati al cosiddetto linguaggio comune: uno falso e universalmente ostentato, ossia la pretesa che il linguaggio racconti la società, le sue virtù, i suoi vizi e le sue debolezze, ma è una raffigurazione, appunto, falsa, che etichetta le persone sulla base di pregiudizi infondati e crudeli; l'altro aspetto, quello nascosto ma maledettamente vero e pericoloso, è che in realtà non è il linguaggio a raccontare la società, ma la società a plasmarsi sulle peggiori falsità e infamie del linguaggio. Diventiamo il nostro modo di parlare: razzisti, xenofobi, maschilisti, omofobi.

Tutti uguali, quindi? Certo che no! C'è una linea vera, concreta e oggettiva che divide il mondo in sfruttatori e sfruttati. Gli sfruttatori non subordineranno i loro interessi a logiche razziali, religiose, di genere o di orientamento sessuale; gli sfruttati farebbero bene a fare altrettanto. 
Non rassegnamoci alla "normalità" di chi ha interesse a dividerci!
Ecco, questo è un buon punto di partenza per creare un nuovo linguaggio, una nuova società, un nuovo orizzonte.







sabato 30 aprile 2016

Marco Iacampo - Live Radio Polare 2016

Ti ho lasciato anni fa, nelle notti milanesi dell'Isola a sorseggiare birra insieme mentre mi raccontavi i tuoi sogni da artista. Ora ti ritrovo qui, a conquistarmi con la tua musica e i tuoi testi.
Auguri amico mio, vai alla grande!

venerdì 1 aprile 2016

Attese

di @PeccyCandy




Come ogni giorno, stamattina ho aspettato.

Ho aspettato la metro, poi ho aspettato il tram. Ho aspettato che il caffè uscisse dalla macchinetta. Ho aspettato che si accendesse il PC e ho aspettato che finisse l’aggiornamento. Ho aspettato che l’acqua del rubinetto diventasse fredda per poterla bere. E mentre aspettavo tutte queste cose, ho pensato.

Ho pensato che la nostra vita è fatta di attese, quelle che finiscono subito e quelle che non finiscono mai. Quelle che ci sembrano durino una vita intera anche se abbiamo aspettato solo cinque minuti. E quelle che durano cinque minuti nella nostra testa, ma in realtà noi aspettiamo da una vita.

E, se ci pensate, non è strano passare la vita ad aspettare? Ci sembra sempre di poter decidere che direzione prendere, ci sembra di poter controllare quello che ci circonda, ci sembra di aver plasmato il nostro passato, presente e futuro. E invece siamo sempre in attesa di qualcosa, senza nemmeno saperlo.


Questa volta non c’è una conclusione, solo un punto di domanda.



WAITING...


Un grazie speciale a Chiara (Twitter: @PeccyCandy)


domenica 18 ottobre 2015

Il grigio e il verde

di Diego Bossi (Twitter: @dibo139)














INTRODUZIONE

Ho sempre pensato che le introduzioni siano un segno di debolezza dell’autore, un modo ausiliario per spiegare e comunicare laddove il testo non arrivi. Non saranno queste righe, a fare da eccezione, perché anch’esse cercano di sopperire a una debolezza, quella di un
racconto dall’animo autobiografico, sì, ma proprio per questo, destinato alle persone che hanno condiviso con me quel tratto di vita in cui mi sono dedicato a una malattia della sfera ginecologica chiamata endometriosi, unendomi al coro rivendicativo delle donne che ne sono affette. Un racconto in pigiama, direi; buono solo a girare per casa con disinvoltura, fra le persone che questa casa la abitano, ma non pronto a uscire in strada: non si è visti di buon occhio, per strada, in pigiama.
Ecco, forse è proprio questo il compito di questa introduzione: mettere un vestito al racconto.
Il grigio e il verde”, scritto in prima persona, mi vede protagonista come attivista sindacale, dove nel corso della mia militanza, mi imbatto per caso nella lotta di alcune donne malate di endometriosi, impegnate a rivendicare diritti e assistenza da uno Stato sempre più assente e a denunciare le discriminazioni – specie in ambito lavorativo – che devono subire.
Dopo mesi di collaborazione e impegno sociale, vengo contattato dalla malattia stessa che, fattasi donna, vorrebbe incontrarmi per parlare. Da qui inizia il racconto, dalla mia decisione – tutt’altro che pacifica – di incontrarmi con questa “Bestia” divoratrice di donne e sogni.
Questo racconto non dà risposte né offre soluzioni, ai detentori di certezze ho sempre preferito i portatori sani di dubbi.
Ne Il grigio e il verde cerco di esplorare più a fondo possibile il dolore delle donne, evidenziando le tenebre che si celano dietro al loro sguardo e mettendo in discussione l’intero mondo del volontariato, sia come pulsione individuale, sia come strutturazione sociale. Associazioni più impegnate a combattersi e pubblicizzarsi che a perseguire i propri obbiettivi statutari, associate passive e trasportate dall’inerzia, un’inerzia fuorviante e truffaldina che offusca l’obbiettività e l’autonomia del giudizio.
Chi è veramente la Bestia e dov’è? Siamo veramente sicuri di essere diversi da ciò che combattiamo? E se il nemico altro non fosse che uno specchio? Può un uomo, capire realmente una donna fino in fondo o la loro diversità è tale da frapporre una distanza che non ammetteremo mai di avere?
Dietro le righe di questo breve scritto ci sono mesi della mia vita, persone vere che porterò nel cuore per sempre e a cui devo solo gratitudine e scuse.
Si dice che un solo gesto, a volte, valga più di mille parole. Se questo racconto fosse un gesto, sarebbe una carezza, fatta col rovescio delle dita, sulla guancia rigata dalla lacrima di chi soffre, di chi si mette in discussione, di coloro che nella vita hanno combattuto un nemico e hanno scoperto di averlo dentro, di quelli che escono di casa eroi per rientrare sconfitti dai propri limiti, di tutte le donne vittime della discriminazione di genere.
Una piccola, delicata, leggera carezza.
Forse è niente.
Forse è tutto.











Che la lacrima evolva, divenga sorriso,
e poi, dolcemente, ruga.






L’INCONTRO


C
ammino. Per un momento pare quasi sia riuscito a sgombrare la mente da tutto e da tutti, l’unica percezione che ho è la cadenza ritmica dei miei passi.
Cammino. Lentamente e con garbo i pensieri iniziano a bussare nella mia testa: vogliono entrare, loro; non li voglio, io.
Entrano. Mica si fermano davanti alle porte chiuse, i pensieri. Loro diventano liquidi e passano nelle fessure, tu gli chiudi la porta in faccia e poi li senti sorridere alle tue spalle, ti giri di scatto e non li vedi. Ma ti sussurrano all’orecchio.
Cammino. Ora veloce, per la curiosità; ora lento, per il timore.
Che aspetto avrà? Faccio bene ad andare? Sarà utile a qualcuno tutto questo?
Ormai mancano pochi metri al luogo dell’appuntamento, quella panchina nel Parco Sempione, tra il monumento equestre erto a Napoleone III e l'Arco della pace. I battiti del mio cuore accelerano e con loro i miei passi. Tra pochi secondi i nostri sguardi si incroceranno: da una parte io, con tutte le mie imperfezioni, le mie paure, il mio senso di impotenza; dall’altra lei, l’endometriosi, la malattia delle donne, quella che pochi conoscono, quella del tessuto dell’utero che durante il ciclo si forma in altre parti del corpo, quella dei forti dolori e dell’infertilità, quella che fa perdere il lavoro e i mariti. Quella che calpesta la vita.
Mi fermo, sono arrivato. Arresto i miei passi e con loro il respiro.
Lei mi è di fronte, è giovane e bella, il suo sguardo è profondo, i suoi occhi hanno un taglio allungato e le iridi emanano un colore a metà tra il grigio e il verde, a volte pare grigio, come il cielo da cui scroscia la pioggia; a volte verde, come certi prati che sembrano non finire; altre ancora, una perfetta commistione tra le due tonalità, e nel tempo in cui cerchi di definire il colore dei suoi occhi, il suo sguardo ti cattura.
Quando le chiesi che aspetto avesse e come l’avrei riconosciuta, lei mi disse che sarebbe stata la mia immaginazione, sulla base del mio vissuto, a darle un aspetto fisico.
Non so quale parte o insieme di parti, quale delle decine di storie di donne malate di endometriosi che ho letto o ascoltato, abbia prodotto l’immagine che ho dato a questa malattia.
Mi faccio ingannare dal suo aspetto innocente, dimenticando con chi ho a che fare mi avvicino a lei, le guardo gli occhi, che è cosa assai diversa da: "la guardo negli occhi", perché io non voglio vedere lei, ma cosa le alberga dentro.
Le guardo intensamente gli occhi, come fossero buchi della serratura di una porta che protegge un'intimità da sguardi indiscreti. Lo devo ammettere: la mia è una curiosità malata alla fonte, fatta della stessa materia del guardare un incidente stradale, una rissa o due che fanno l'amore. Una curiosità che ho pagato caro.
D'un tratto i suoi occhi sprigionano l'ignoto, per la prima volta in vita mia capisco quale aspetto abbia il dolore.
Mi scappa un grido soffocato e faccio un passo indietro.
Lei mi guarda con un’intensità tale da farmi sentire posseduto. E sorride. Il suo sorriso è bello quanto terrificante. Sembrerebbe che una cosa escluda l'altra, non può esserci oscurità nella bellezza di un sorriso.
No, non è così, quel sorriso è l'emblema dell'endometriosi: la bellezza di una donna, il male che si porta dentro.
Il mare dalle verdi sfumature che lambisce certe grotte e lo stesso che, grigio e tempestoso, ferocemente ti inghiotte.
Il grigio, il verde.
Un brivido mi percorre la spina dorsale. Faccio un respiro profondo, cerco di radunare tutte le parole e i concetti che mi ero prefissato di esprimere. E con voce alta e tremante, inizio a parlare.






 IL DIALOGO



- «E pensare che due anni fa io la parola endometriosi non l’avevo mai sentita. Ora mi trovo qui, davanti a te, la Bestia, come le donne che senza pietà colpisci sono solite chiamarti.
Sai, devo e voglio essere sincero con te: mi fai schifo! Mi fa schifo quello che fai, il modo subdolo in cui lo fai, ma soprattutto mi fa schifo la tua intelligenza da stratega nel fare soffrire le donne; perché tu non colpisci forte, non colpisci piano: colpisci il giusto! Quell’equilibrio perfetto di intensità e modalità da rendere tutto maledettamente difficile e lontano dalla soluzione. Hai presente quelli che perdono il lavoro a mezz’età, troppo giovani per la pensione e troppo anziani per il ricollocamento? Ecco, tu sei così: abbastanza grave da rovinare la vita delle tue vittime, ma non abbastanza da farle ottenere un aiuto dalle istituzioni. Vogliamo poi parlare delle tue prede? Potevi colpire tutti, indistintamente dal sesso, invece hai scelto le donne, sapendo che sono discriminate in partenza e che sarebbero state abbandonate a se stesse. Ma tu non ti sei accontentata di questo, hai voluto rincarare la dose della tua perfidia acuendo il loro dolore nella fase mestruale, mimetizzandoti così nell’incapacità delle tue vittime di sopportare i dolori del ciclo, alimentando la diffidenza e il pregiudizio del mondo maschilista: sei donna e devi soffrire!
Non so perché hai scelto me, mi domando cosa mai puoi avere da dirmi e soprattutto cosa mai posso avere io da ascoltare».

- «Tu sei presuntuoso, saccente e codardo!»

- «Io?! Ma se è un anno che…»

- «Un anno che cosa?! Sentiamo, cos’hai fatto in un anno? Cosa credi di aver cambiato? Sei ridicolo! Credi che basti scrivere articoletti struggenti e giocare al piccolo giornalista per combattermi?»

- «Beh, la vuoi sapere una cosa? Io non sono un codardo! Anche se sono un uomo ti ho fronteggiato a viso aperto sempre, senza mai tirarmi indietro».

- «Io, io, io, io e ancora sempre e incessantemente io! Ma lo vuoi capire che qui il problema non sei tu?! Siete tutti bravi a misurare il vostro ego sulla barra millimetrata dell’impegno sociale».

- «Non ho mai chiesto riconoscimenti a nessuno, e comunque lo hai detto tu: il problema non sono io. Il problema sei tu».

- «È questo, caro Diego, il più grande errore che si possa fare, il problema non sono io.
Sai, c’è una massima famosa che fa più o meno così: “Il problema non è il problema, ma cosa fai tu di fronte al problema”. Ecco, cosa fai tu? Cosa fa il medico? Cosa fa la paziente? Cosa fa la gente?
È troppo facile prendersela con me, io sono una malattia, sono fatta di cellule e molecole, non ho consapevolezza di me stessa come voi umani, a me non interessa esistere perché io esisterò sempre e comunque, cambierò nome, cambierò effetti, ma continuerò ad esistere. È il postulato di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, io sono il fruscìo degli alberi mossi dal vento, la nuvola che oscura e il sole che illumina; sono quello che vedi ma non guardi, che senti ma non ascolti. Ma voi volete dare un volto e un nome a tutto quello che non conoscete o che non vedete, perché non riuscite a relazionarvi che con voi stessi, vi fa sentire più sicuri, lo fate con le religioni, con gli uragani come con le malattie. Personificate me per dare un alibi alla vostra inconcludenza, date sembianze umane a ciò che umano non è, perché chi umano è, l’umano non sa più fare. Ma quando capirete che su di me si riflette il peggio di voi?!»

- «E tu quando capirai che colpire l’utero significa colpire il fulcro dell’intera razza umana?! Com’è possibile accettare che una donna debba subire simili sofferenze solo perché portatrice di un organo che è il sacro simbolo della vita? Di più: com’è possibile accettare che di questo fardello, la donna, debba accollarsene interamente il peso? Sei di una viltà vergognosa!»

- «Non ci provare neanche a giocare al paladino dei diritti umani con me, perché non funziona! Se io sono vile voi uomini cosa siete? Voi che vedete le donne come oggetto al vostro servizio: sfogo sessuale, faccendiera di casa, contenitore  dei vostri figli, belle finché utili, utili finché belle. Guardati dentro, solo lì capirai cos’è la vergogna.
Trovo perfino incomprensibile e fastidioso che tu ti sia interessato di quello che faccio io alle donne».

- « Non c’è nulla da comprendere, l’elemento che più mi indusse a collaborare alla campagna informativa su di te e a fare mie le rivendicazioni delle donne che colpisci, soprattutto nell’ambito sindacale, in cui sono impegnato, fu sicuramente la lettura di decine di testimonianze postate in rete dalle tue vittime. Fu allora che decisi di impegnarmi in questa causa, scrivendo volantini e articoli, pubblicando interviste, allestendo banchetti informativi. Allora non compresi appieno la complessità di quel mondo. E comprendere pienamente un qualsiasi problema è la base di partenza per affrontarlo. Lo devo ammettere: con te, tutt’ora, ho delle serie difficoltà».

- «Siete in molti ad averne. Credete di comprendermi sulla base di quello che dicono o scrivono le donne che colpisco, ma nessuno è capace di andare oltre, di viaggiare mentalmente nei remoti luoghi del dolore e guardarmi negli occhi là, dove le donne non diranno e non scriveranno. Vedete in me il dolore fisico, i più sensibili captano il dolore della psiche sintetizzandolo semplicisticamente con sentimenti come tristezza, autocommiserazione, sensi di colpa e inadeguatezza. Ma nessuno, nessuno, riesce non dico a raggiungere, ma nemmeno a intravedere il dolore dell’essere, quella macchia indelebile sull’essenza della vita, che ne devia la rotta e ne sposta gli equilibri. Ricorda: non esiste male più grande di quello che può celarsi dietro al sorriso di una donna.
Mi cercate con le risonanze e le ecografie, ma non sapete più cercare col cuore. Il radiologo non vedrà l’amore incompiuto di una donna che non sarà riuscita a fare padre il suo compagno e nonni i suoi genitori, non vedrà la frustrazione che si prova non riuscendo ad essere amante, non vedrà il dolore di una madre che non riesce a correre su un prato con suo figlio, non vedrà mai la differenza tra un sorriso di felicità e un sorriso sforzato che ti senti in dovere di offrire a chi ti ama.
Poi c’è la cosa più invisibile di tutte, caro Diego. Quella che spesso non vedono neanche le mie vittime, ma questa, in fondo, è una cosa che colpisce tutti: uomini e donne, malati e non».

- «E quale sarebbe ‘sta cosa?»

- «Il debito».

- «Il debito?!»

- «Sì, il debito. Il debito che la vita contrae nei vostri confronti e di cui pretendete perennemente il risarcimento.
Ci sono cose che ognuno di voi percepisce come irrinunciabili e non accetta di esserne privato. Io tolgo molte di queste cose alle mie vittime, il dolore che infliggo è invalidante per il corpo e per l’anima, spesso privo le donne della maternità, di una vita lavorativa regolare con cui creare la propria indipendenza, di un’attiva partecipazione nelle relazioni sociali.
Succede così che il maltolto diventa sogno, il sogno ossessione, l’ossessione incubo. Si finisce col passare la vita a inseguire quello che non si ha avuto. Dimenticando quello che si ha».

- «Hai detto una grande e scomoda verità. Per te che non sei umana è facile fare analisi e sparare sentenze, cosa può saperne una malattia delle ambizioni, della gioia o della tristezza? Cosa ne sai tu dell'amore e della disperazione, della famiglia e della società, dell'abbandono e dell'emarginazione. Avanti, dimmi cosa sai della vita, tu che la vita mortifichi».

- «Forse niente, forse tutto. Ma la mia visuale è nitida perché il mio sguardo è disinteressato. Osservo il mondo delle donne che possiedo, osservo il dolore che le infliggo, il vuoto che le creo intorno; osservo la vostra indifferenza, la pavidità umana. Combattete guerre stupide: il politico che deve vincere, il partito che deve avere la maggioranza, la manifestazione più numerosa; combattete a chi è più bravo a combattermi, a chi arriva prima a colpirmi, al medico migliore, alla storia più dolorosa, alle scelte più giuste, all'associazione più valida.
Combattete tra voi, mentre io sto alla finestra a guardare».

- «Molte volte mi sono ritrovato a fare le tue stesse osservazioni senza mai individuare una soluzione percorribile. Si inizia sempre nel migliore dei modi, con le migliori intenzioni, poi si innescano meccanismi inevitabili: competizione, brama di fama e di riscatto sociale finiscono col prevalere. È inutile, siamo così, noi. Quando ci vedi fare del bene devi chiederti per quale motivo lo facciamo. E spesso scoprirai che vogliamo coccolare le nostre coscienze e lustrare il nostro ego. Si fa volontariato anche per sopperire a vuoti sentimentali e sociali, per avere considerazioni e riconoscimenti che non si trovano nella sfera privata o lavorativa.
Il calcio da noi non è solo lo sport nazionale, ma una filosofia di vita. Siamo sempre buttati in un campo, con maglie differenti a cercare di mandare un pallone in una rete. Ci sono i calciatori e gli allenatori, ossia coloro che in prima persona lottano per l’obbiettivo; poi c’è il pubblico sugli spalti, migliaia di individui che passivamente tifano per una squadra o per l’altra standosene comodamente seduti a guardare, a gioire, a criticare. Ecco, ogni giorno, in ogni luogo, per ogni causa, va in scena questa partita. E nessuno si domanda chi o cosa abbia chiuso tutti nello stadio per sbirciare divertito».

- «E quindi? Come se ne esce? Qual è la soluzione?»

- «Le due squadre in campo smettono di affrontarsi e si alleano perché capiscono che l’avversario in realtà è un altro, il pubblico abbandona gli spalti e scende in campo, tutti insieme escono dallo stadio affiatati e determinati e vanno prendersi ciò che gli spetta. Ti pare verosimile?»

- «Sinceramente, no».

- «Ecco, appunto, semplicemente, la soluzione, non esiste».

- «Eppure…»

- «Eppure cosa?»

- «Eppure la marcia mondiale, le associazioni… non so, sembrerebbe che le potenzialità le avete tutte»

- «Dobbiamo ridare alle parole il loro significato. Il termine associazione indica una moltitudine di persone che si associano per perseguire un obbiettivo. Un’associazione è tale quando le persone associate partecipano ai processi decisionali, come alle attività, altrimenti, l’associazione non è più un mezzo ma il fine, diventa un gruppo di potere autoreferenziale che si nutre di se stesso, dove il lavoro e lo sforzo di tanti – spesso inconsapevoli –, si traduce nell’interesse di pochi.
La marcia mondiale è senza dubbio un evento importante, ma non dobbiamo dimenticarci che dev’essere un punto di partenza e non di arrivo».

- «Parlami di te».

- «Cosa c’entro io?»

- «Più di quello che credi. Prima mi hai chiesto perché avessi scelto te, e tu? Perché hai scelto me, invece? Cosa ci azzecca un uomo? Intendiamoci: di uomini ne vedo tanti, ma in qualità di  mariti, fratelli e padri di donne malate. Tu invece no, nulla sapevi e nulla ti legava a me. Eppure ci ritroviamo qui, ora, io e te. Perché?»

- «L’unica, amara e difficile verità è che non lo so. Nella vita ci passano davanti ogni giorno tantissime cause a cui dedicarci, ma solo alcune ne scegliamo.
Proprio non lo so perché ho scelto te.
Ho creduto di aiutare delle donne che nel loro dolore lottavano per i loro diritti, ho pensato che scrivere di loro potesse essere un segno di vicinanza e di comprensione.»

- «Ma?»

- «Ma vicinanza e comprensione sono fatte di fatti, non di belle parole. Ci sono persone stupende che lottano al fianco delle tue vittime ogni giorno, io altro non sono che un paroliere vuoto che nasconde i suoi limiti dietro ai suoi testi, e più le parole son belle, meglio mascherano il vuoto della sostanza. Contenta ora?»

- «Sì. Non sarò ipocrita. Era quello che volevo sentirti dire, era lì che volevo arrivassi.
Hai scritto di noi senza comprendere chi sei tu, hai narrato la parte scenica dell’endometriosi, quella sul palco, davanti alla platea, dove tu eri spettatore attento. Ma non sei andato a sbirciare dietro il sipario, avresti visto cose che fanno male, caro Diego. E forse saresti riuscito a guardare negli occhi l’unico vero peccato originale esistente, che non è quello propinatoci dalla chiesa maschilista, di mangiare un frutto, dove la donna è tentata e tentatrice, ma quello di conferire alla donna l’esclusiva dell’origine: la formazione della vita nel suo grembo, quindi la continuità della razza umana. A lei l’enormità della gioia e del dolore, dei meriti e delle colpe, delle decisioni e delle responsabilità; del grigio e del verde. Si, proprio così, il colore dei miei occhi che tanto guardavi prima significa questo: la complementarità degli opposti, nulla esisterebbe se non esistesse il suo contrario.
Eccolo il vero peccato originale, infima bestia che crea nei remoti inconsci di entrambi i sessi sensazioni ataviche e ancestrali, di cui non vi rendete nemmeno conto. L’uomo sarà per sempre distaccato dal processo di formazione della vita, e questo distacco per lui sarà una colpa irredimibile; la donna non accetterà mai questo distacco dell’uomo nella fase più solenne della sua esistenza.
Il peccato originale. Che nessun battesimo potrà mai cancellare».





IL LASCITO



Assorto nei pensieri e provato dalle intense parole scambiate con la bestia, guardo tutto senza guardare niente, fisso il vuoto, perché di vuoto sono fatto e nel vuoto mi riconosco.
Mi volto verso di lei, ma lei non c’è più. Svanita. Nel nulla.
Guardo, guardo ovunque, guardo fra gli alberi e i cespugli, lungo i sentieri e i bordi dei laghetti. Stupidamente mi alzo e giro intorno a me stesso guardando in basso, come se potesse essere sotto di me.
Una sensazione astratta di vuoto e di smarrimento mi invade, cammino fra gli alberi del parco dove fino a pochi minuti prima stavo parlando con lei, mi riscopro triste, di una tristezza diversa, figlia del sapere e madre di nuove prospettive. Il guscio della verità, lentamente, si crepa, fino a schiudersi e a rivelare l’ovvio: non esiste nessuna malattia che si è fatta donna per incontrarmi. Sono io ad averla immaginata, come in un sogno a occhi aperti costruito ad hoc dalla mia coscienza. E ora mi ritrovo qui, al capolinea di questo percorso introspettivo, la mia sostanza è più povera, ma la corazza che la ricopre più spessa. Perché il dolore diviene accettazione e poi saggezza: lacrima, sorriso, ruga.
In questa mattina d’autunno, osservo la brezza che fa oscillare gli alberi e sposta velocemente le nubi, creando un gioco d’alternanza tra l’ombra e i raggi del sole.
D’un tratto, quasi a liberarmi dalla sua assenza, riecheggiano nella mia mente le sue parole: “…io sono il fruscìo degli alberi mossi dal vento, la nuvola che oscura e il sole che illumina; sono quello che vedi ma non guardi, che senti ma non ascolti”.
Mi siedo nuovamente sulla panchina, rilasso ogni muscolo e stendo la schiena, cercando una pace che non merito.
Allargo le braccia lungo lo schienale e lascio cadere a peso morto la testa all’indietro, fissando il cielo.
Il senso di vuoto e di solitudine, la speranza, il bisogno di amore e di amare, la dura accettazione dei propri limiti e la voglia intensa di superarli. Sembrano esserci tutte, le sensazioni di una vita vissuta.
Chiudo gli occhi, vedo i suoi. Il grigio. Il verde.








Scritto nelle province di Milano, Roma, Monza Brianza, Rimini e Lecco. 
Pubblicato il 18 ottobre su www.cursorinellanotte.blogspot.it





sabato 3 ottobre 2015

Corrispondenza con Freddy

Di Diego Bossi (Twitter: @dibo139)



Caro Diego,

purtroppo non abbiamo avuto ancora "il piacere" di conoscerci di persona. Il mio nome è Frederick Charles Krueger, ma mi faccio chiamare Freddy.
Mia madre, Amanda Krueger, sposa in Cristo suor Mary Elena, Ebbe la tragica sfortuna di rimanere rinchiusa in un manicomio durante le

mercoledì 9 settembre 2015

Realtà parallele - Foto di Maurizio Polmonari




Mondo, natura e società - Foto di Maurizio Polmonari



Alba sul lago (Punta Bellaggio)

Immagini astratte - Foto di Maurizio Polmonari





"Il cervello non riconosce la differenza tra quello che vede nell'ambiente e quello che ricorda perché si attivano le stesse reti neurali, osservando il mondo intorno a noi come è possibile continuare a vederlo come reale se siamo noi stessi a determinare ciò che è reale? Chi vede concretamente, il cervello o gli occhi? Quello che diamo per scontato del mondo, semplicemente, non è verità. Ciò che noi vediamo sono solo riflessi, frammenti, lame di luce...

Ma siamo sicuri che se noi chiudiamo gli occhi, la luce esiste ancora?"





Breaking Walls