Parole da Twitterland

venerdì 5 giugno 2015

Era solo un pensiero - Lettera aperta a un amico scomparso

di Diego Bossi (Twitter: @dibo139)




“Il pensiero è la forma più libera e intima che l’uomo ha per esprimere sé stesso. 
Nel pensiero puoi essere quello che vuoi, o puoi non essere quello che sei; puoi disegnarti il futuro, o puoi cancellare il
passato. 
Nel pensiero gli amici non muoiono. Mai.”












“Noi moriamo soltanto quando

non riusciamo a mettere radice in altri”
(Leone Tolstoj)
















Piccola introduzione dell’autore




“La gente della notte sopravvive sempre, nascosta nei locali, confusa tra le ombre…”, cantava Jovanotti nel 1990 in uno dei suoi brani più celebri.

Allora il mondo, a guardarlo dal pulpito odierno, era un luogo diverso.
L’undici settembre era solo San Diomede, il cellulare era solo la camionetta della polizia e Berlusconi era solo un imprenditore.
Sulle cartine geografiche politiche una grande macchia monocromatica portava al suo centro un acronimo a caratteri cubitali: U.R.S.S, ossia Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
La guerra fredda, quelli della nostra generazione, la percepirono come una sorta di derby planetario: americani contro russi, buoni contro cattivi, Rocky Balboa contro Ivan Drago.
I volti di Bernini, Volta, Montessori, Caravaggio, Bellini e Marconi campeggiavano sulle banconote in corso.
Nelle sale cinematografiche, tanto per intendersi, proiettavano film come “Ghost” e “Fantozzi alla riscossa”.
Fu questo, a tratti sommari, lo scenario che scandì l’inizio degli anni 90’. In quei tempi noi ci apprestavamo a diventare la futura gente della notte; ed è in quell’ambito, nella vita prevalentemente notturna di quegli anni, che è ambientata questa lettera a Tony, dove ripercorrerò i momenti più salienti passati insieme a lui e i giorni che seguirono la sua dipartita fino al suo funerale. Infine, cercherò di trarne una riflessione personale.
“Era solo un pensiero”, non è solo il ricordo di un amico scomparso, ma è per me l’estinzione di un debito morale, l’ultimo capitolo della metabolizzazione di un vuoto.
Ho poco altro da dirvi, voi tutti incarnate il mio più bel concetto di “casa”, perché è questa la prima parola che mi viene in mente  quando ci ritroviamo: casa. È in voi che la definizione di amici prende corpo.
Più di una volta mi sono domandato quale sia la differenza tra un gruppo di persone e una compagnia; cosa trasformi un insieme di unità in un unico soggetto collettivo.
Beh, mi sono risposto: il passato, un'origine comune, una memoria condivisa.
Ognuno di noi vive un presente diverso e avanza verso un futuro diverso. Ma tutti noi, ovunque saremo e in qualsiasi momento, quando ci volteremo indietro vedremo la stessa cosa: vent’anni del nostro crescere insieme.
L’otto marzo 1997 fu scritta la pagina più dura del nostro viaggio, quel giorno tutti quanti siamo cresciuti un po’, per la prima volta abbiamo compreso, nel modo più violento possibile, che la vita non era proprio come ce la immaginavamo.
Le canzoni, per quanto belle siano, a volte si sbagliano. La gente della notte, non sopravvive sempre.



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Caro Tony,


sono passati quindici anni da quella notte, un tempo infinitesimale per il ricordo che ho di te, e infinito per la mia evoluzione personale.

Sento forte, in queste notti così lontane dalla nostra gioventù, il bisogno di scriverti per dare un significato a tutte quelle immagini nella mia memoria che, ancora nitide, sfidano il logorio degli anni.
Mentre scrivo ti vedo innanzi a me, magro come pochi, il naso pronunciato, vestito con uno dei tuoi soliti abiti gessati, un mazzo di spadini in tasca, una Ceres saldata alla mano e una maschera da scugnizzo sestese.
Certo, per scrivere di te dovrei stendere un romanzo, ma io non voglio scrivere di te; voglio scrivere a te, ricordando di noi, tralasciando l’aspetto superficiale del tuo fare per approfondire il tuo essere.
Vorrei quindi ripercorrere in questa lettera i momenti più intensi condivisi insieme, cominciando da quella che senza dubbi fu la serata più trasgressiva e significativa.

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Quella sera io e te eravamo all’Angolo Bavarese, parlammo a lungo di tutto e di niente, le nostre parole si diluirono nei boccali di birra finché affogarono, poi, ci incamminammo verso casa.

Ad un tratto, assorto nel torpore dell’alcool ti sentii esclamare:
«Vedi! Io ci provo anche a mettere la testa a posto, ma 'sto coglione ha lasciato le chiavi nella portiera!».
Mi voltai e vidi una Saab 900 turbo con le chiavi appese alla serratura, nello stesso istante vidi anche il filmino che stava girando nella tua testa. Ti ammonii ad alta voce, con insistenza, invitandoti a non fare cazzate e a venirtene via con me, cercai di farti riflettere, eravamo ciuchi come due camionisti crucchi all’oktober  fest, sarebbe stato meglio per tutti e due chiudere la serata in bellezza: l’ultima sigaretta, due chiacchiere, e a nanna.
Da subito fu evidente che avevamo due concetti diversi di bellezza, stoppasti le mie prediche con una frase che non dimenticherò mai:
«Va bene ho capito, stai tranquillo… era solo un pensiero».
Io rimasi spiazzato, fu una doccia fredda, in una sola battuta mi avevi cucito addosso un abito paternalista che sentivo improprio, continuai a ripetermi nella mente quelle parole pronunciate da te con rassegnazione e delusione: “era solo un pensiero”, come a dire: con questa palla al piede non se ne fa un cazzo. In un solo colpo avevi fatto babbeo me e figo te.

Il pensiero è la forma più libera ed intima che l’uomo ha per esprimere se stesso.

Nel pensiero puoi essere quello che vuoi, o puoi non essere quello che sei; puoi disegnarti il futuro, o puoi cancellare il passato.
Nel pensiero gli amici non muoiono. Mai.
Ma poi i pensieri svaniscono e ci si ritrova spesso a fare i conti con una realtà deludente e indesiderata; se non drammatica.

Non è difficile accettare di lasciare nell’immaginazione una corsa su una macchina sportiva guadagnandosi l’etichetta di bacchettone. Basta non avere vent’anni e due litri di birra in corpo.

 Alcuni minuti dopo ci trovammo in quell’autostrada urbana che era il viale Delle industrie in quegli anni ancora lontani dall’urbanistica delle rotonde. Io a bordo della Saab, tu con una Thema turbo 16 che avevi per le mani, a spingere la lancetta sulla tacca dei duecento.
Le gomme stridettero in curva, gli incroci scanditi dal giallo lampeggiante passarono come roulette russe, il cuore mi percosse il torace fino a farlo vibrare.
Quella sera ci furono tutti gli ingredienti soliti a comporre la testa di cazzo di un ventenne: L’alcool, la velocità, il pericolo, l’incoscienza e l’adrenalina.
Compresi subito che quella non era la mia vita, ma una visita effimera nella tua. Ancora oggi, quando penso a quella notte, ho l’istinto di lavarla via con una doccia, come una donna violentata, per scrollarmi di dosso la potenza letale di un ricordo che è talmente vivo da sembrare ancora pericoloso.

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E come dimenticare le nostre vacanze a Senigallia col Buba e il Bucks.

Partimmo di notte e a colpi di caffè arrivammo giusto in tempo per gustarci l’alba sul mare ingozzandoci di bomboloni caldi e cappuccini.
Da veri veterani del viaggio non lasciammo nulla al caso, avevamo già compiuto le operazioni fondamentali: comprare due stecche di Marlboro e una bottiglia di J&B.
Passammo ai dettagli: trovare una tenda da quattro e un posto dove poterla piazzare.
Dopo un'estenuante ricerca trovammo un igloo, che da veri intenditori scegliemmo per il colore: blu elettrico. Senza curarci di fattori irrilevanti quali  dimensioni, praticità e confort. Quello non era un igloo qualsiasi, era un igloo blu elettrico; e quando un igloo è blu elettrico, deve per forza possedere tutti requisiti che una tenda di alta gamma è solita avere.
Fummo talmente soddisfatti del nostro nuovo acquisto che convenimmo di specificarne sempre il colore ogni qualvolta si parlasse di esso, pertanto, a onor di quel patto, farò lo stesso in questa lettera.
In seguito trovammo un mezzo campeggio che ci assegnò una mezza piazzola.
Rimase solo un problema: come diavolo montare il nostro igloo blu elettrico.
Svuotammo la sacca contenitiva e riversammo a terra  un telo blu elettrico da due ettari e una moltitudine di tubi, tubetti, tubini, laccetti, stringhe, picchetti e picchettini.
Con le facce a punto interrogativo iniziammo a prendere confidenza col materiale. Buba stese il telo blu elettrico come per apparecchiare la tavola e ci si sdraiò sopra, io costruii una specie di meccano coi tubi dell’intelaiatura, Bucks, seduto a terra con le gambe divaricate, si accinse ad addentare un picchetto per testarne la commestibilità e tu, come un neonato con una mammella, ciucciavi latte scozzese dalla bottiglia di J&B.
Dopo mezzora di tentativi di assemblaggio tu eri ancora intento a proseguire la tua poppata celtica, io e il Buba avevamo costruito un fantastico aquilone blu elettrico e stavamo correndo in spiaggia per provarlo, mentre Bucks, si era inghiottito due picchetti con tre foglie di lattuga.
Due ore dopo io, il Buba e il Bucks eravamo esausti davanti a un origami blu elettrico di un metro e mezzo raffigurante un gabbiano portoghese: bello, ma poco funzionale come riparo per dormire.
A quel punto fosti costretto a interrompere la suzione per prendere in mano le redini. Seccato esclamasti: 
«Levatevi dai coglioni, ci penso io a montare 'sta cazzo di tenda blu elettrico!»
Prendesti a due mani il foglietto illustrativo e lo studiasti attentamente per cinque minuti. Dieci minuti dopo il nostro splendido igloo blu elettrico era perfettamente montato.
Lì per lì ci stupimmo delle tue attitudini da campeggiatore provetto, ma poi scoprimmo che il foglietto che studiasti con tanto scrupolo conteneva le istruzioni del walkman di Buba. E tutto fu chiaro; anzi, blu elettrico.
Quel breve momento di euforia venne interrotto da un brontolio del cielo che non lasciò presagire nulla di buono. Nel giro di pochi secondi iniziò a scrosciare acqua piovana accompagnata da tuoni assordanti e saette.
Fu così che facemmo la saggia scelta di ripararci in macchina e quella meno saggia di fumare tutti e quattro contemporaneamente. La scena che seguì fu talmente grottesca da sembrare una pubblicità progresso contro il fumo: un abitacolo invaso da una fitta e densa coltre e quattro stronzi che ridevano e tossivano fino al collasso.
Per nostra fortuna la pioggia diminuì, uscimmo dalla macchina con gli occhi gialli e i vestiti impregnati di nicotina e umidità andammo a fare la spesa. Il Bucks solennemente annunciò:
«Io me ne sto in macchina a fare una pennichella, mi sento lo stomaco appesantito».
Probabilmente non aveva digerito la lattuga.
Raggiungemmo il mini-market nei paraggi del nostro mini-campeggio e facemmo una mini-spesa: pane, affettati misti e un fiasco di Sangiovese, notoriamente consigliato come bevanda da portare in spiaggia nel primo pomeriggio.
Finalmente venne il momento del cazzeggio balneare: sole, mare, panini, vino e lumate ai bei esemplari del gentil sesso.
Poi, esausto dal caldo cocente, andai a farmi un bagno. Nuotai per una cinquantina di metri dalla riva, mi voltai sul dorso e stetti sdraiato a rilassarmi su quel gigantesco materasso ad acqua che è l’Adriatico, mi feci cullare dalla dolce intermittenza delle onde in quel pomeriggio agostano.
Avrei raggiunto anche il nirvana se non ci fosse stata quella sensazione subdola a pervadermi. C’era qualcosa che non quadrava in quel disegno perfetto, come il tassello mancante di un mosaico.
Cercai di ignorare quel sentore sinistro, mi convinsi che non c’era alcun motivo di preoccuparsi, del resto non mi mancava nulla, ero a mollo nel mare col sole che mi baciava la fronte, avevo un igloo blu elettrico, avevo te, Buba e il Bucks… Il Bucks… Cazzo il Bucks!
Di colpo un brivido mi percorse la spina dorsale, dalle mie viscere partì una vampata di calore che sconfisse la frescura dell’acqua e mi arrivò dritta sul viso. Solo in quel momento mi apparve con una chiarezza disarmante cosa mancava per completare il mosaico: un tassello da un quintale e mezzo alto due metri.

Quando due ore prima fummo colti di sorpresa da un temporale estivo, la mia Fiesta 1100 SX nera coi finestrini chiusi si presentò come un riparo sicuro.

Ma i temporali estivi si sa, sono passeggeri per definizione. E un confortevole rifugio può trasformarsi molto presto in una trappola incandescente.

Nuotai il più velocemente possibile, il mare pareva essere un gigantesco tapis-roulant per nuotatori: più sbracciavo e più rimanevo fermo.

Nel mio cranio continuavano ad echeggiare quelle parole: “io me ne sto in macchina a fare una pennichella…”
Quando raggiunsi stremato la spiaggia trovai il Buba alle prese col sangiovese e te che caricavi un cilum da mezzo kilo; agguantai l’asciugamano e vi gridai:
«Cazzo raga abbiamo dimenticato il Bucks in macchina!»
Iniziammo a correre come tre ghepardi, o meglio, come un ghepardo (tu), e due leoni di mare con le emorroidi (io e Buba).
Quando raggiungemmo la macchina il tempo sembrò rallentare.
I vetri erano appannati, aprii lentamente la portiera e sentii uno sfiato, come se stessi aprendo l’oblò di un modulo spaziale sotto vuoto.
Lo trovammo sdraiato sul sedile anteriore reclinato e con il volto velato da bolle di sudore,  lo svegliammo scuotendolo per una spalla, lui dischiuse gli occhi e ci scrutò come se fossimo marziani, lentamente si alzò ed uscì dalla macchina.
Dinnanzi a lui noi, i nostri sguardi fissi sul suo volto in attesa di un segno di vita. Come tre re magi portavamo in dono un asciugamano, un fiasco di Sangiovese e un cilum da mezzo kilo.
Dopo una dozzina di interminabili secondi, mi prese l’asciugamano dalle mani e se lo passò sul viso e sulla testa, poi lo gettò a terra inzuppato, quindi agguantò il Sangiovese e si abbeverò come un bisonte dell’Arizona meridionale (quelli del sud bevono di più), infine strappò dalla tua presa il cilum che fra le sue mani sembrò una sigaretta, se lo mise tra le fauci e aspirò talmente forte da ingoiarsi pure la wedra e l’impasto spedendole nell’abisso insieme ai picchetti e la lattuga. A quel punto inclinò la testa di quarantacinque gradi verso l’alto e fece fuoriuscire dalla bocca una tale quantità di fumo da oscurare le spiagge dal Conero al porto di Grottammare.
L’epilogo di questa sequenza divina  fu il segno di vita tanto atteso, anzi, direi un vero e proprio inno alla vita: un rutto degno di una creatura mitologica che con ogni probabilità venne registrato dai sismografi di Ancona. Alla fine di quel verso disumano tu avevi i capelli fucsia, Buba prese il morbillo e a me caddero due denti.
Quella sera andammo a dormire presto e scoprimmo di aver comprato un igloo da due posti e mezzo, ma non ce ne importò nulla, non dormivamo da trentacinque ore, avevamo passato una giornata lunga e difficile; ed era solo la prima! Poi, dopotutto, anche se piccolo, si trattava pur sempre di un igloo blu elettrico.

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E la volta che abbiamo fatto serata a Parma te la ricordi?

Quella sera cenammo all’Isola, eravamo io, te e il Torres, tu uscisti a telefonare, rientrasti con lo sguardo eccitato e ci chiedesti:
«Pago io la benzina, avete voglia di andare a Parma?».
Avevamo voglia.
Di lì a poco fummo tutti e tre a bordo del mio fiestino nero, davanti a noi un'autostrada vuota, sotto di noi scorreva la linea bianca tratteggiata, dentro di noi due medie e un grappino a testa.
In quel periodo a Parma lavorasti con una cooperativa in trasferta; la nostra missione era semplice: accompagnarti dal tuo capo in modo che tu potessi ritirare lo stipendio senza aspettare il lunedì, quindi, sputtanartelo nel fine settimana.
Arrivammo a destinazione sommando le tue scarne indicazioni a quelle di qualche anima persa che vagabondava per le strade come noi.
La casa del tuo ipotetico “stipendiatore” si presentò subito con i battenti chiusi, pigiasti il dito sul citofono che ti ripagò subito con uno dei suoi silenzi più assoluti, riprovasti una, due, cinque volte, finché il silenzio fu interrotto dalle tue bestemmie.
Il tentativo col cellulare non diede risultati migliori, il telefono pareva rispondere continuamente alla domanda: chi è il più coglione del mondo? Tuu tuu tuu…
Ad ogni modo non ci perdemmo d’animo, eravamo a Parma, perché non farsi un giro?
Di nuovo in groppa al fiestino, un’altra città, un altro locale, lo stesso alcool di sempre ad accompagnare la nostra autocommiserazione.
All’uscita ci attese il diluvio del secolo, il Torres saggiamente esclamò:
«Aspettiamo che smetta!».
Ma io gli spiegai che no, la pioggia avrebbe potuto durare ore e noi eravamo a centocinquanta chilometri da Sesto. Tu non proferisti parola, avevi già combinato troppe cazzate quella sera.
Fu così che iniziammo a correre come tre levrieri, o meglio, come due levrieri (voi) e un ippopotamo ferito (io); ma la nostra corsa, a causa del nostro ridere fino all’asma si depotenziò fino ad arrestarsi, e ci trovammo tutti e tre fermi, sotto una cascata d’acqua, con le braccia aperte e lo sguardo all’insù, a gridare al cielo i nostri vent’anni.
Poi tutti in macchina, divertiti, spensierati, inzuppati, ubriachi. E di nuovo la linea bianca tratteggiata dell’autostrada che, come un filo di Arianna, ci ricondusse a casa.

Sai Tony, oggi ci basta una tenue pioggerellina per farci andare fuori di testa. Noi invece ci sbellicammo dalle risate sotto quel nubifragio. Ecco, una definizione completa ed esaustiva che descriva la differenza tra i giovani e gli adulti potrebbe essere questa: gli adulti non sanno più ridere della pioggia.


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Infine vorrei concludere questo viaggio nella memoria rimembrando un aneddoto che ha fatto storia.

Sai già di cosa sto parlando vero?
Quella sera fummo in preda a una crisi di noia. Sempre ai giardini, sempre su quelle panchine ormai stanche dei nostri culi.
Quando arrivò il Beppe con una confezione da sei bottiglie di Lambrusco e due salami felini stagionati ci tornò il sorriso.
Decidemmo di consumare quello spuntino notturno in un luogo tranquillo e suggestivo; sarebbe stata la cosa migliore.
Il mio fiestino parcheggiato in via Cairoli sconfortato gridò:
«'sta volta dove cazzo vi devo portare?!».
Non solo non ebbe una risposta che non avevamo neanche noi, ma in un attimo il suo abitacolo si riempì.
Io, te, Beppe, Digio e il Bucks; l’autostrada, l’uscita di Dalmine, la provinciale, la strada secondaria, il sentiero sterrato e i campi.

Ora, per quanto sia possibile fare un fermo immagine in uno scritto, sarebbe opportuno passare dalla dimensione dinamica del filmino evocato dal mio racconto, alla dimensione statica della fotografia: una macchina ferma in mezzo ai campi di notte. Con qualsiasi prospettiva, poco importa; quello che importa è il soggetto, che per meglio imprimere nella mente di chi leggerà questa lettera, ripeto: una macchina ferma in mezzo ai campi di notte.

All’apparenza non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che quell’immagine fu il risultato di una beffarda consecuzione di eventi che si incastonarono alla perfezione.
Quella sera il Bucks si sedette in macchina dietro di me, con buona pace della più elementare logica nonché del comune buon senso che, viste le nostre due stazze, imporrebbero un assegnazione diversa dei posti auto.
Sempre quella sera, decidemmo di migrare a quaranta km da Sesto, in un campo sperduto. Quando avremmo potuto mangiare e bere comodamente ai giardini.
E, sempre quella sera, giunti a destinazione decisi di arrestare la macchina proprio lì, in quel preciso punto. Non un metro più avanti, non un metro più indietro. Lì.
E rieccoci di nuovo alla nostra macchina ferma in mezzo ai campi di notte.
Come nella miglior tradizione fantozziana, un fossato di delimitazione dei campi esprimeva la sua profondità di un metro e mezzo partendo appena sotto la portiera posteriore sinistra.
Ma quella non fu una portiera qualunque, fu la portiera da dove uscì il Bucks.

Spensi il motore, aprimmo le portiere in simultanea ed uscimmo, all’improvviso sentimmo un verso strozzato in gola seguito da un tonfo sordo che con ogni probabilità venne registrato dai sismografi di Bergamo.

La nebbia rasente al campo si diradò a cerchi concentrici, come l’effetto di un sasso nello stagno.
In quello stesso istante, in una piazza gremita di persone a Auckland, in Nuova Zelanda, uno stormo di piccioni brulicanti si alzò in volo all’unisono, destando lo stupore degli abitanti, che mai avrebbero potuto immaginare cosa causò la fuga repentina dei volatili in quel primo pomeriggio estivo.
Ci ritrovammo in riga sul bordo del fossato con le teste all’ingiù.
Ancora una volta il Bucks, ancora una volta i nostri sguardi fissi sul suo volto in attesa di un segno di vita.
Fu Beppe a rompere il silenzio per primo, proponendo una colletta per il noleggio di un'autogru.
A quel punto entrasti in gioco tu con quel tuo fare risolutivo e infastidito dall’inconcludenza altrui. Ti chinasti, allungasti la mano verso il Bucks e lo esortasti:
«Dai su, alzati!».
Io, Digio e Beppe ci voltammo verso di te e iniziammo a ridere come forsennati. Facevate centocinquanta kili in due, di cui centoquaranta ce li metteva il Bucks, come ti passò per la testa di tirarlo fuori da quel fossato, rimane uno dei misteri insoluti del tuo agire. Quella scena parve uno di quei quadri che Costanzo mandava in onda prima dei consigli per gli acquisti: “l’abbondanza e la carestia” olio su tela 50x70.
Il Bucks fece un espressione a metà strada fra lo stupore e la rassegnazione, come a dire: ma è possibile che questo è così coglione?
Poi la metà della rassegnazione prese il soppravvento e in quell’istante dedusse che sì, non solo era possibile, ma con quella condizione si misurava tutti i giorni. Da anni.
Quindi fece una sbuffata che mi ricordò quella di Bud Spencer quando lo sfigato di turno gli rompeva lo sgabello di legno sulla schiena, e, lentamente, emerse in superficie.
Quella  notte fu letteralmente magica, restammo seduti sul prato al chiaro di luna a ridere dell’accaduto e a ingurgitare salame e vino fino all’alba.
Al ritorno vedevo triplo, guidai a ottanta all’ora su un autostrada che mi sembrava essere una biscia in movimento, nell’abitacolo regnava un silenzio religioso, arrivammo ai giardini e tu, ancora tu, leggero come una rondine a primavera domandasti:
«Oh una birra al baracchino?».
Al solo suono di quelle parole il mio stomaco ebbe un tumulto di dignità e si vendicò violentemente. Quella volta, i miei vent’anni, li gettai sul prato dei giardini.
Alzai lo sguardo, avevo gli occhi iniettati di sangue, un rivolo acido di salame e lambrusco mi penzolava dalla bocca e con una voce mista tra Louis Armstrong e Sandro Ciotti con la raucedine dissi:
«Buona notte, io me ne vado a letto».
Mentre camminavo verso casa mi accesi una Marlboro per levarmi dalla bocca il sapore del vomito, ma aggiunsi schifo allo schifo.
Mi ripromisi di non bere più. Così come le pronunciai, quelle parole si dissolsero nell’aria insieme al fumo della sigaretta. Quella promessa, dettata dal malessere più che dal buon proposito, resterà disattesa ancora per parecchi anni.
Arrivai davanti a casa e decisi di non essere nelle condizioni ideali per circoscrivermi fra quattro mura, perciò proseguii la mia camminata, senza sapere per dove, senza sapere per quanto, ma soprattutto, senza sapere che quella appena passata, fu l’ultima notte in tua compagnia.

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Il venerdì seguente sembrò una sera come tante altre, mancava poco alla mezzanotte, il muretto dei giardini era già coperto di bottiglie di birra vuote. Ti vidi passare a bordo di una macchina grigia di cui non ricordo il modello, guidata da gente di cui non ricordo il volto.

Sarebbe fin troppo banale e scontato dirti che avrei voluto sapere il tuo futuro imminente per tirarti giù da quel sedile posteriore e tenerti con me quella notte, chiusi in casa a bere Ferrarelle.
Posso anche capire che il corso degli eventi non si possa cambiare, la macchina del destino, inesorabile, non ferma mai la sua corsa. Ma almeno avrei dovuto avere la possibilità di fermarti, farti scendere un attimo e abbracciarti, stringerti forte a me, senza dirti niente.
Tu non avresti capito il motivo di quell’abbraccio così intenso e delle mie lacrime, probabilmente mi avresti fissato stupito, e con gli occhi sgranati mi avresti detto: “Oh, tutto apposto?”, io avrei interrotto l’abbraccio, avrei stretto le tue spalle esili fra le mie mani, ti avrei guardato profondamente e avrei risposto: “Sì Tony, e tutto  ok. Buona serata, ci vediamo domani”. Ti avrei riabbracciato per l’ultima volta, mi sarei voltato e avrei camminato lontano, distrutto dal segreto che il destino mi aveva svelato e sui cui non potevo intervenire, ma onorato di aver avuto la possibilità di darti l’ultimo saluto come si deve a un amico.
Invece no. Ci scambiammo uno sguardo separati da un finestrino in movimento,  mi mostrasti il palmo della mano, non so se per salutare o per chiedere attesa, lasciando intendere un tuo imminente ritorno, e mentre io già pensavo ai beati cazzi miei, tu scivolasti via, con un biglietto di sola andata, a farti inghiottire da una notte senza alba che non ti restituì più al sole.
Il resto rimane scolpito nelle asettiche cronache locali di quel tardo inverno del 1997:

Un morto e un ferito grave in un incidente stradale avvenuto nella notte fra venerdi' e sabato all'incrocio fra le vie Roma e Solferino: la vittima, Antonio, un giovane ventiquattrenne di Sesto. Viaggiava in direzione di viale Monza quando, per cause da accertare, la sua Fiat Croma ha invaso la corsia opposta e si e' schiantata frontalmente con una Ford Fiesta, guidata da un altro giovane di 25 anni, in servizio alle Fiamme Gialle di Monza. Antonio e' morto dopo pochi minuti, mentre il finanziere e' rimasto ferito alle gambe: operato ieri all'ospedale di Niguarda, resta in prognosi riservata.

Uno di quei trafiletti a bordo pagina che fa scuotere la testa ai lettori in segno di disgusto verso una generazione di sbandati, ma fa scaturire in me una lunga serie di fotogrammi e sensazioni che mi sono dentro fino alle ossa: io negli spogliatoi al lavoro al termine del secondo turno, Ivan che chiude il cellulare dopo una telefonata silenziosa, il suo calcio all’armadietto, il suo sguardo incredulo, i suoi occhi lucidi, la sua voce rotta dal dolore che non lasciò spazio ad interpretazioni:

«Dié... Tony».
Il mio colpevole e inconfessabile sollievo per non aver fatto visite nella tua vita quella notte, le mie mani che appoggiarono un mazzo di fiori sul luogo dell’incidente, la lunga rampa di scale che scendeva fino all’obitorio, il tuo corpo supino su una lettiga metallica, il mio istinto di chiamarti:
“Dai coglione alzati! Andiamo a farci una birra…”
L’attesa fuori da casa tua, la bara che esce dal tuo portone, la chiesa buia, la mia camminata verso l’uscita dalla chiesa con il pollice e l’indice premuti sugli occhi, la luce che dal sagrato mi investe, il mio pianto liberatorio, il cimitero nuovo di Sesto e quell’ultima scena maestra, solenne, a chiudere l’opera: tutti noi seduti su una scalinata attigua alla tua tomba a produrre lacrime, lacrime, e ancora lacrime.
Fine dello spettacolo, cala il sipario. Su tutti. Su tutto.

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Sospendo la goffa danza di polpastrelli sulla tastiera del mio pc per una pausa, preparo la caffettiera e la metto sul fuoco, mi siedo sul divano e silente penso:


Eccoci qua, ancora io e te. Io un padre di famiglia di trentasei anni, residente in una casa di corte a Cesano Maderno; tu un ragazzo di ventiquattro anni dall’eterna giovinezza, intrappolato nell’ampolla dei miei ricordi.

Chissà come saremmo oggi se le cose, quella notte di quindici anni fa, fossero andate diversamente. Probabilmente avremmo imboccato strade talmente diverse, che ci saremmo incontrati di rado a Sesto, scambiandoci un saluto istituzionale, pro-forma, comunque sproporzionato alla nostra storia.
E’ incredibile quanto poco valore diamo ai nostri vissuti condivisi, ma le vite di ognuno di noi sono così, spesso si intrecciano e altrettanto spesso si separano.

L’inconfondibile gargarismo italico della Moka mi riporta alla realtà. Verso il caffè fumante in una tazza ed esco all’aperto; lo scenario è cambiato.

Non più i palazzi di Sesto, ma le case basse di Cesano; non più i giardini di via Cairoli, ma una corte; non più una bottiglia di birra, ma una tazza di caffè; non più l’inizio di una notte, ma la fine di una sera.
Alle mie spalle, in casa, lascio un monitor acceso e un cursore lampeggiante in attesa dei miei ordini, per generare l’ultima sequenza di parole.
Alzo lo sguardo e la porzione di cielo stellato che le case circostanti mi concedono pare assolvermi da questo incombente compito.
All’improvviso mi appare chiaro che certe storie una conclusione non ce l’hanno, né mai ce l’avranno; sono come dei conti aperti.
Forse alcuni ricordi non vanno archiviati con un significato preciso, ma fanno semplicemente parte di noi. Li ritroviamo tutti i giorni nella nostra arte di farne esperienza, nei nostri sorrisi apparentemente immotivati, nei nostri silenzi improvvisi.
Forse queste parole in realtà non esistono, sono solo il mio modo di dirti che mi manchi e di ringraziarti per tutti i momenti belli e meno belli, ma comunque intensi, che hai regalato alla mia vita.
A pensarci bene, caro Tony, questa lettera non te l’ho neanche mai scritta. Era solo un pensiero.

1 commento:

  1. Non necessariamente emozione e ragione sono costrette a essere imprigionate nell'equilibrio che il mondo esige da loro. Il cuore a volte ha diritto a dare uno scossone alla catena in cui la ragione lo tiene avvinto,se ne libera e scappa per la sua ora d'aria.

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